“Intercostale” di Gabriele Ajello – Dopolavoro Letterario n. 58
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“Intercostale” di Gabriele Ajello – Dopolavoro Letterario n. 58

Tutti sanno scrivere racconti, prima di scrivere racconti. Sono particolarmente affezionata alla scrittura di Gabriele, conosciuto qualche mese fa nel laboratorio sul racconto “Scrivere storie fantastiche”. Ne sono affezionata perché intravedo in lui l’aspetto più interessante della ricerca e della grandezza della scrittura breve: rendere opaca la realtà e mettere in luce l’impossibile o l’invisibile. Cosa in cui Gabriele è bravissimo.

I N T E R C O S T A L E

Racconto di Gabriele Ajello

La terrazza spoglia, esposta alla tramontana, si reggeva su di un ammattonato di piastrelle in ardesia color grigio opaco stinto, macchiettato da feci di piccione. Le chiazze, conniventi con il tempo, avevano corroso la pavimentazione. I pugni chiusi del giovane sostenevano il suo corpo esile, appoggiati con le nocche in prossimità del vuoto. La sua auto, una Subaru Forester, grigia, era una visione, con quel muso ammaccato che sporgeva oltre le strisce blu.

Per la prima volta la osservava dall’alto. Era piccola come il palmo della sua mano che in un gesto, rapido, poteva farla scomparire alla vista. L’auto era un lascito del padre, scomparso un’estate di alcuni anni fa. Non era morto. Era proprio scomparso nel nulla. Aveva lasciato l’auto in garage, così la madre concluse che il padre fosse scomparso a piedi.

Il padre l’aveva trattata come una compagna di viaggio. Il figlio l’aveva accettata come la compagna di viaggio del padre, più della nuova compagna del padre conosciuta in un viaggio e infatti al sesto piano avvertì una fitta al petto. Dolori intercostali, come quelli che la madre chiamava così fin da quando era un bambino: «Stai tranquillo, è solo un dolore intercostale.» “Intercostale”, come se in una parte del corpo, nascosta tra le pieghe del costato, del tutto innominabile, si annidasse un dolore misterioso dalle cause ignote. «Che cosa mi fa male allora?». La domanda cadeva nel vuoto di una madre senza spiegazione, come il suo sguardo tra via Sant’Agostino all’incrocio con via Allende dove sostava male l’auto che un tempo era stata del padre.

Al quinto piano il dolore era scomparso. Come il padre. Si accarezzò il petto infilando la mano sotto il maglione di cashmere. Gli veniva stretto. Era ingrassato o il maglioncino si era rimpicciolito a furia di lavaggi brevi. Fu costretto a sbottonare appena la camicia per facilitare il passaggio dell’arto. Fu attraversato da un brivido di piacere. Gli si rizzò il pelo sul torace. Con l’altra mano allargò il maglione all’altezza del collo per agevolare l’ingresso delle dita. Sperava che quel godimento durasse a lungo, ma le sue gambe pulsavano sangue e l’intimità terminò.

Al quarto piano c’era aria di famiglia. Sullo zerbino tracce di fanghiglia. Guardò il campanello da lontano e si trattenne dal suonarlo, nonostante un’irrefrenabile voglia di premere il dito medio sulla plastica retraibile della placca d’ottone su cui trionfava il titolo “Avv. Persini”. Le persone che venivano a trovarli varcavano la soglia della casa dell’Avv. Persini. Avvocato divorzista divorziando. Avrebbe premuto il campanello per il solo fatto di trovarsi lì davanti, come un dispetto, senza pensarci. Suonare e scappare.

Al terzo piano albergava la morte improvvisa. Al tempo delle monellerie una notte venne la morte e si portò via il capofamiglia del piano di sotto, senza avvertire nessuno. Sua madre gli rimboccò la coperta e Guido scomparve, non come il padre, ma piccolo piccolo nel buio caldo del suo letto.

Il secondo piano fu un passaggio, come la pubertà. Il più era stato fatto e non c’era motivo per cui vi si soffermasse. Vibrava il suo petto, ma questa volta era il cellulare. La comunicazione fu breve e poco coinvolta: «Non ci sono motivi per pensare a una tua responsabilità. La visibilità scarsa e l’alta velocità con cui la donna cercava di superarti hanno contribuito alla disgrazia. Non ci sono elementi che possano renderti responsabile… e poi sei il figlio dell’Avvocato Persini… non tenere preoccupazione.»

Al primo piano Guido ebbe un ripensamento. Scese i gradini fino a giungere finalmente a terra. Guardò dal basso la tromba delle scale che formava la spira capovolta da cui era fuoriuscito o che al contrario lo avrebbe avviluppato. La contorsione delle scale aveva un’attrattiva disarmonica. Sin da quando era piccolo, dopo gli spasmi intercostali, seguiva un rigurgito acido che sostava in bocca per qualche minuto. Questo ritorno decise di risalire. Dal costato. Non senza dolore gli si affacciò al palato, ma non completò il suo tragitto, tanto gli era costato trattenerlo in tutti questi anni. Ritornò giù senza fare storie, mentre risaliva a piedi. Piccole scorie sugli zerbini degli inquilini. Suonò un allarme. La Subaru? L’auto non aveva un allarme. Era il segnale di pericolo giunto dal costato ammaccato. Radente allo zoccolo piastrellato del muro, accanto al gabbiotto del custode, aveva inciso le sue iniziali quando si era laureato: Avv. Pers. I caratteri erano talmente minuscoli che neanche gli scarafaggi li avrebbero notati. Le sue nocche ossute reggevano il suo corpo esile sul corrimano grigio. Un dolore al costato. Nel pozzo luce si era fatto buio, mentre il telefono lampeggiava volando giù nel rimbombo dell’androne. Guido non riuscì a rispondere. Questa volta sul display lampeggiava la scritta vibrante del raddoppio di una lallazione: “papà… papà… papà…”

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