Dopolavoro Letterario n.75 – Zitta che arriva Maria Farranca di Maria Pisanu
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Dopolavoro Letterario n.75 – Zitta che arriva Maria Farranca di Maria Pisanu

Attraverso una scrittura legata ai cinque sensi, Maria Pisanu apre una porta sulla tradizione sarda: Maria Farranca, lo spirito della casa, tramandato dalle storie dei bambini. La voce della protagonista, forte e chiara, accompagna il lettore nella leggenda, rivelandoci un retroscena inedito. Un racconto in cui l’elemento fantastico, la voce, e la scrittura si intrecciano con equilibrio per dare vita a un’atmosfera e a un piccolo mondo folkloristico. Un racconto nato nel nostro laboratorio La senti questa voce?, nella parte curata da Ilaria Amoruso dedicata al fantastico. Maria pensava di fermarsi e non scrivere più. Noi le consigliamo, invece, di farlo ancora!

Zitta che arriva Maria Farranca

di Maria Pisanu

Quando avevo quattro o cinque anni, ero convinta che alle due del pomeriggio, d’estate, il mondo intero si spegnesse di colpo. Che l’umanità intera si addormentasse sotto l’effetto di un incantesimo dispettoso, capace di togliere un po’ di serietà al mondo degli adulti, facendoli apparire buffi e goffi agli occhi di noi bambini.

Li vedevo giacere tutti, con la bocca aperta e impastata di sudore, da cui scivolavano fuori gli odori del pranzo consumato. Le loro espressioni erano così assurde, così comiche, che sembravano un vero e proprio spettacolo per noi bambini. Ma non per tutti. Solo per i più audaci, quelli che sfidavano Maria Farranca – l’incubo di ogni bambino del mio paesello – pronti a rischiare di essere afferrati da sas farrancas, quelle mani artigliose che ti portavano via se non chiudevi gli occhietti e restavi in silenzio. Ma portati via dove? Nessuno aveva mai il coraggio di chiederlo.

In quei lunghi pomeriggi, il mio paesello diventava un presepe abbandonato, sommerso in una luce accecante e misteriosa. Le strade, svuotate di vita e lastricate di ciottoli di basalto, si facevano roventi e abbaglianti, mentre l’aria ferma, immobile, raccoglieva a ogni incrocio odori intensi e contrastanti. Al profumo invitante di fritto, di maialetto o capretto arrosto, di sugo e basilico si mescolavano, all’improvviso, effluvi pungenti e sgradevoli: gli escrementi delle galline lasciate libere di razzolare per i viottoli in cerca di vermetti, il tanfo dei maiali rinchiusi nelle stalle e ingrassati a forza fino a Natale, i resti di cibo avariato lasciati negli angoli per i gatti randagi, e l’odore di fogna che risaliva dalle griglie stradali, anch’esse in basalto. Il silenzio poteva essere rotto, al massimo, dal ronzio pigro di qualche moscone smarrito, in cerca di riparo in un angolo fresco o attirato dal forte odore di un capretto appena macellato, lasciato a frollare al buio della cantina. L’aria tremava lenta, come se avesse perso la voglia di essere respirata.

Non un sussurro di vento, non uno scricchiolio. Le persiane abbassate parevano palpebre pesanti.  Anche le galline, solitamente caciarone e indiscrete, cadevano vittime dell’incantesimo, stavano distese come pezze bagnate all’ombra incerta del grande limone in fondo al giardino. Becco aperto, occhi semichiusi, sembravano aspettare qualcosa che non sarebbe mai arrivato: un filo di vento, una nuvola impertinente.

Dentro casa, il silenzio era così denso da sembrare vivo, come se l’aria stessa trattenesse il respiro. Mia madre giaceva svenuta sul canapè di pino. Le braccia nude e muscolose, abbandonate e madide di sudore, adagiate sulla pancia, emanavano il suo profumo, quello di semplicità e duro lavoro. Ma non mancava mai quella nota fresca del sapone fatto in casa, un delicato mix di erbe aromatiche con una punta acida della lisciva. Le sue mani nervose sembravano trovare pace solo dentro le enormi tasche frontali del grembiule da cucina, che indossava sempre, come un uniforme, anche quando non cucinava. Quelle tasche erano quasi dei rifugi, dei veri e propri nascondigli, da cui poteva uscire di tutto. Il suo respiro, lento e profondo, seguiva il ritmo di quel tic-tac ossessivo e inquieto del vecchio e stonato orologio della cucina, che riempiva il silenzio con una cadenza a tratti dolce, ma anche profondamente malinconica.

Il sonno di mia madre veniva appena sfiorato dal vecchio frigorifero giallo che, all’improvviso, si scuoteva come per scrollarsi di dosso la calura, vibrando forte e rompendo per un attimo il silenzio. Lei sobbalzava appena, poi tornava a sprofondare nel caldo del suo respiro lento.

E io ascoltavo e registravo tutto con un misto di quiete e impazienza. Attendevo che il suo fiato si appesantisse e che le palpebre cessassero di fremere, calando infine a mezz’asta. E quando finalmente accadeva, sgattaiolavo via. Piano. In punta di piedi, come un ladro, attenta a non svegliare né mia madre né il silenzio.

Non andavo lontano. Solo qualche stanza più in là, dove nessuno metteva piede. Dove non si poteva, dove “non c’è niente da vedere”. Ma io sapevo che lì, in quel posto proibito, c’erano risposte. Ai perché che nessuno voleva sentire. Ai silenzi degli adulti. Ai segreti che non si dicevano, ma si sentivano nell’aria di casa.

Ci si arrivava con una scaletta di legno annerito dal tempo e traballante, che scricchiolava a ogni passo, piena di nodi e buchi da cui si intravedeva il piano sotto: un reticolo da cui osservare senza essere visti e sfuggire da possibili richiami della cucina di sotto. Ogni gradino gemeva, ma io sapevo esattamente dove mettere il piedino. Aprivo il chiavistello arrugginito della porticina sgangherata. Un colpo secco, il cuore in gola e salivo nel caldo denso e polveroso di quell’altro mondo. La luce filtrava dalle finestre chiuse, ma così malconce che qualche raggio riusciva comunque a entrare, disegnando strisce chiare sul pavimento di legno anch’esso impolverato e sazio di vita. Un mondo sospeso.

Anche lassù, il tempo sembrava essersi fermato e l’aria era densa di odori che si aggrappavano alla pelle, pizzicavano il naso e sembravano risalire fino agli occhi, facendoli bruciare lievemente: l’acre delle cipolle marce, il dolciastro delle patate dimenticate, il fiato pesante della muffa che saliva dai muri di pietra, un sentore umido e terroso con una punta di resina antica e polvere stagnante, che si levava dalle tavole del pavimento in legno, logorato dal tempo e dalla pioggia che filtrava tra le canne del tetto, insinuandosi sotto le tegole rotte e spostate dai piccioni. E, come una carezza lontana, il profumo inconfondibile e genuino del sapone fatto in casa: bianco tendente al beige, compatto, a tratti ruvido, ma sincero.

Gli oggetti erano davvero tanti, forse troppi per lo sguardo fragile e ancora inesperto di una bambina così piccola, che cercava di contenerli tutti senza riuscirci. Credenze con sportelli appena socchiusi, cassetti gonfi di vestiti che non erano mai stati miei, bambole mutilate, con le guance annerite e un occhio assente, l’altro spalancato o semi chiuso. Bauli legati con corde, ruote di mele appassite e tessuti ruvidi d’orbace. Tutto parlava, se stavi zitta abbastanza. Tantissimi oggetti misteriosi, disseminati ovunque, e io non riuscivo a immaginare né a cosa servissero né a capire chi li avesse lasciati lì.

Si diceva che lì vivesse Maria Farranca, e che ti portasse via se facevi troppe domande. Ma io di domande ne facevo sempre, tante, più di quanto avrei dovuto. Eppure, nessuno rispondeva mai, ma nessuno mi portava via. La soffitta, invece, sì. Mi rapiva con il suo silenzio, ma mi proponeva tante risposte, almeno lei ci provava, a suo modo. Le bambole mi fissavano, con le bocche cucite e quell’unico occhio rimasto sano, spalancato, come quello di chi ha visto troppo. I tarli rosicchiavano le travi e sembrava che parlassero in codice. Un giorno trovai un baule che odorava di tabacco e cuoio crudo. Dentro c’erano vestiti neri, rigidi, intrisi di silenzio. Uno specchio incrinato rifletteva una me diversa: con gli occhi troppo grandi, troppo svegli.

Tra vecchie lettere ingiallite e fotografie che nessuno aveva più il coraggio di guardare, trovai un diario. Le pagine si sbriciolavano sotto le dita. C’era scritto:

“Maria Farranca non è cattiva. Lei custodisce. Lei aspetta.”

Mi venne freddo, nonostante fuori ci fossero quaranta gradi e il sole sciogliesse persino i ciottoli duri di basalto.

Poi la vidi.

All’inizio fu solo un’ombra. Poi si fece forma. Era curva, enorme, avvolta in uno scialle di orbace nero e pungente. I piedi erano nudi, sporchi di terra nera, duri come radici.

Aveva mani enormi, deformi — sas farrancasa — come gli artigli di un animale, nodose e contorte, pronte ad afferrare chiunque osasse disturbare il silenzio dei morti o frugare dove non si deve.

Il volto era coperto da un velo sottile, ma ne intravedevo la bocca: cucita, o forse solo chiusa da troppo tempo. Il suo odore era un intreccio di terra bagnata, cenere fredda e grasso irrancidito — quello usato un tempo per ammorbidire selle e collari delle bestie — un sentore che pizzicava il naso e ti penetrava fino al cervello. Non parlò. Ma le parole mi entrarono dentro, senza passare dalle orecchie: “Tu ascolti. Tu ricordi. Tu puoi restare”.

Non scappai.

Le chiesi: “Chi sei?”

E lei disse solo:

“Sono ciò che tua madre dimentica. Il dolore cucito nei vestiti. La memoria delle bambole cieche.”

“Quando crescerai, dimenticherai anche tu. Ma se ascolti bene, la soffitta ti parlerà ancora.”

Ancora oggi, a cinquant’anni, anche se vivo in Continente, come dicono i sardi, con quella punta d’orgoglio che ti ricorda che sei altrove, lontano dal paesello, basta che dimentichi cipolle o patate in dispensa, e quell’odore di marcio e muffa torna a sussurrarmi: «Brava, sei tornata.»

Mi fermo. Chiudo gli occhi. E la sento.

Maria Farranca non è cattiva.

Lei custodisce.

Lei aspetta.

E se cerchi risposte, lei te le dà.

 

 

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