“Un mare piccolo piccolo” di Emanuele Finardi – Dopolavoroletterario n. 26
3813
post-template-default,single,single-post,postid-3813,single-format-standard,bridge-core-2.4.7,ajax_fade,page_not_loaded,,qode-title-hidden,qode-theme-ver-23.5,qode-theme-bridge,wpb-js-composer js-comp-ver-6.5.0,vc_responsive

“Un mare piccolo piccolo” di Emanuele Finardi – Dopolavoroletterario n. 26

“Il paradosso del respiro” è la raccolta di racconti ancora inedita di Emanuele Finardi. Nel prologo la racconta così: Il libro che vi apprestate a leggere è, in definitiva, uno scherzo della vista. Un gioco a rimpiattino che cerca di aggirare piccoli e grandi stereotipi che accompagnano normalmente la narrativa. E le sue atmosfere tipiche. I suoi personaggi, le storie che animano sono effettivamente non-sense nell’accezione positiva che solo la scrittura sa rendere: così come in letteratura 2+2 non  fa 4, allo stesso modo in queste storie non si trova un senso alla o della vita;  non ci sono idilli nelle parole di Emanuele ma tante maree che riportano a riva alcune cose che non sapevamo di avere perso. La raccolta uscirà a Febbraio per l’editore ENSEMBLE.

UN MARE PICCOLO PICCOLO

 di Emanuele Finardi

Una parola muore appena detta, dice qualcuno. Io dico che solo in quel momento comincia a vivere.
(Emily Dickinson)

Figlia mia finalmente oggi ci riesco, ne sono sicura.

Oggi ti scrivo. In francese come vuoi tu e non in algerino, lo giuro.

L’ho deciso stamattina, mentre mi guardavo nello specchio facendo fatica a riconoscermi. Nemmeno la vista del mare mi ha potuto aiutare. Un mare che neanche questo inverno riesce a raffreddare del tutto. A me, così piccola stamattina nel cuore, sembra davvero grande dalla finestra. Mi parla con la voce grossa di chi ne ha viste tante, e che conosce da vicino tutte le leggende di questo porto: che profuma di sardine che arrivano dall’acqua, e di vino Bordeaux che arriva da terra. Dal balcone dei miei occhi, seduta sull’altalena del pianto, lo posso dominare tutto questo anfiteatro di sughero, con la sua parvenza di durezza e il suo nocciolo di burro. Nel suo labirinto poroso, scorgo la saggezza di mia nonna che con la sua sedia a dondolo coperta di rose dava indignata le spalle al mondo; un po’ come questa città orgogliosa da secoli della sua indipendenza.

In fondo, ho pensato guardando per un attimo in basso, sono come quel giovane magrebino intento a spazzare il marciapiede prima della nuova asfaltatura, anche lui con il suo carico di frustrazioni di chi piega la schiena la mattina presto. Lui a pulire la strada – io il letto – prima che arrivino altri uomini a sporcare di nuovo. Vai a spiegarlo tu al corpo che chiede il riposo.

E, invece, bisogna rimettersi in marcia anche lungo il solito vicolo stretto di questa città che ormai mi guarda con compassione mentre scendo dalla stazione al Vieux Port.

Con passo da sposa ripudiata e coi topi come damigelle d’onore. Una esistenza, la mia, consumata sul filo sottile del margine. Dodici, a volte quindici ore, ove il salario alla fine è uscire viva, con le mani e la gola al posto giusto, senza aver pagato alcun altro pedaggio oltre alla vergogna. Ah come vorrei una volta mollare tutto questo per un giorno e arrivare, stavolta con le gambe e non solo con gli occhi e il sospiro, alla Corniche. Basta guardare alla sinistra del porto, è lì che comincia. Ma, come spesso accade, lo sguardo inganna e le ville dei ricchi sono molto più lontano, almeno per me. Tanto lontano che nemmeno col tram sono riuscita mai ad arrivarci.Dicono che dietro la curva, prima di arrivare al Vallon des Auffes, ci sia il mare più bello del mondo, che puoi ammirare mentre nell’aria si sparge il profumo di bouillabaisse, talmente forte da essere in grado di portarti volando sino a Cassis. Dicono che il mare di là sia di un azzurro indomito e insolente, quasi violento nella sua magnificenza: un mare che ti sveglia con uno schiaffo, per poi accarezzarti col vento caldo da sud. Strano che queste terribili giornate al mattatoio dell’anima non lo abbiano reso cattivo, Omar, il mio ultimo amante di questa notte. Lui lavora alla stazione frigorifera: in mezzo a pareti alte, di lamiera lucente, che fan da teatro a piccole formiche scure intente a stoccare l’ultimo carico di carne e sangue. Si muovono tutti al ritmo dei rumori di metallo cattivo, terribile e insensibile a quei cristi appesi dal collo. In fondo Omar è l’uomo che va bene per me. Per questo fisico da gazzella col leone attaccato al culo. Per questa faccia che il pasticcio di rimmel e ombretto si diverte a rendere ancor più scavata. Un volto da strada. Che sa di bitume caldo. Lui è come il Mare dietro la curva. Omar conosce la formula: bisogna essere spietati e attenti, movimenti brevi precisi da torero, dove quello che conta è ricordare che davanti hai una cosa, un bene tale solo per il suo involucro. Una merce che vale da morta.Perché, in fondo, io valgo solo da stesa, al massimo carponi. Quasi nessuno vuole che salga sopra, chissà quale onore signori! Ma loro non sanno che da sotto si vede meglio. Che dal basso ogni volta rubo il midollo. E scruto la loro morte. Che è molto peggio della mia. È appena piovuto, e dunque riesco a vedere tutta la mia grama sfida al domani in questo stagno prima di pestarlo con le scarpe. Come se fosse il mio piccolo mare privato. Un mare piccolo piccolo. In questo cristallo d’acqua sbrecciato a destra ci vedo le notti da fanali di una volta; pupille asiatiche fissate su auto improbabili, invadenti perché di un giallo forte, francese, che fora il buio del lampione castrato dai sassi del figlio del lattaio. Un colore sfacciato che si insinua sin sotto la gonna, e passi. Sotto i seni in vetrina, e passi. Ma che cerca ti violarti anche il cuore. E questo non lo accetto.Meglio le mie calze scure, lise ma tanto belle e sincere quando le allungo sin quasi all’inguine. Meglio anche loro di voi: perché sanno stare zitte e da sempre non mentono a nessuno.

Vorrei che tutto mi si confondesse, come accade nel retrovisore appannato dei miei clienti. E vorrei non vedere niente: così da dimenticarmi chi sono. E scriverti la più bella lettera della mia vita.

“Cara Alida, nonostante siano più di vent’anni che non ci vediamo…”.

L’avrò riscritta un milione di volte, ma alla fine ci sono riuscita a imbucarla.

E, come in un vecchio film, di quelli che mi fanno sognare, vedo già il postino con la bicicletta in volo dall’altra parte del Mediterraneo al tuo uscio, che te la consegna.

Non so nemmeno se  abiti ancora là… Ma mi fido del mare.

Purtroppo, figlia mia, la vita non si decide per posta.

E, anche se fosse, conosci tua madre: di certo riuscirei a dimenticare il francobollo.   

 

#DOPOLAVOROLETTERARIO È LA RUBRICA RISERVATA A CHI HA SEGUITO UN PERCORSO DI SCRITTURA OPPURE UNO DEI MIEI CORSI. PER PARTECIPARE BASTA INVIARMI UN TESTO, MAGARI FRUTTO DEL LAVORO SVOLTO INSIEME. PER CONOSCERE APPUNTAMENTI, CORSI, PRESENTAZIONI, LIBRI, STORIE E QUELLO CHE SOFFIA NEL VENTO ISCRIVETEVI ALLA MIA NEWSLETTER.)

 

 

 

 

 

No Comments

Sorry, the comment form is closed at this time.