29 Set “Scatole nere” di Cinzia Cognetti – Dopolavoroletterario n. 14
I sei protagonisti dei rispettivi racconti di “Scatole Nere” sono tragicamente segnati dall’abbandono o dal senso di inettitudine, riversano nella pagina sensazioni, pensieri, dubbi, speranze e preoccupazioni. Lavorare con la scrittura di Cinzia è stato come srotolare delle vite accartocciate che adesso hanno il respiro, e la fragranza, di storie universali. Quello che segue è un estratto di uno dei sei racconti contenuti nella raccolta che sarà presto pubblicata da Les Flaneurs.
Il cagnolino del dottor Zaum
di Cinzia Cognetti
Ho pestato un guscio di nocciolina. È collassato. Ha perso la sua interezza; è diventata una poltiglia irriconoscibile.
Anche io ero intero. È stata la vita a sgretolarmi. Gli arti sono a posto, per amor di Dio, l’artrite mi consente ancora di camminare e il cortisone attenua il dolore. Il problema è in profondità. Sotto l’epidermide; nel cranio. Lo perforavo ai miei pazienti e inserivo l’aspiratore. Mi facevo strada nella materia grigia del cervello. Avevo la responsabilità del passato, io, il peso: attraversavo ricordi. L’operazione chirurgica era complessa. Sfioravo quella gelatina disgustosa e mi stupivo di quanto fossero fragili. Sono come le orme che ho lasciato sulla brecciolina. Una folata di vento e il terriccio le ricopre. Io ero come il vento. Una disattenzione e sarebbero stati travolti; cancellati per sempre.
Cammino nella notte. Entro. Il Parco Giochi è deserto. Le torri del castello delle fiabe svettano nel nero. Seguo la linea verticale verso il basso, scendo con la vista. C’è un lungo muro. La merlatura sembra porfido. Passo l’indice. Non è porosa e manca attrito: è cartongesso. Quando mio figlio Riccardo era un bambino e mi chiedeva a quale epoca risaliva, io rispondevo: “quella dei cavalieri e di Mago Merlino”. I suoi occhietti scintillavano e le guance si arroventavano per l’emozione. Era una bugia ma io amavo guardare felice mio figlio. Per questo gli ho mentito anche su sua madre.
I ricordi se sono così deboli perché non si frantumano? Fanno più fracasso della suola. La sbatto sulla brecciolina. Cerco di scrollare i rimasugli del guscio. Lascio solchi come la punta ferrosa dell’elettroencefalogramma. Una riga a zig zag che disegna montagne aguzze; pianura significa morte. Continuo a sopportare il fardello del passato. Fa male, grava sulle spalle. Mi appoggio al cancello. È alla fine del muro. La schiena è arrugginita ma meno rispetto alle sbarre. Potrei piantarne una nella calotta cranica. La sofferenza cesserebbe. La riga diventerebbe piatta. Accarezzo l’idea. Morendo graviterò in alto, nel cielo. Le foglie volteggiano per terra; frastagliate e ruvide. Le gambe avanzano faticosamente, seguono un effluvio. È profumo di nostalgia e burro di arachidi. Mia figlia Melissa affondava le dita nel sacchetto, rastrellava con l’indice il fondo di burro; non le bastavano i pop-corn, mangiava i pezzettini bruciacchiati che erano rimasti sulla carta. Era una bambina; aveva l’età in cui non sai riconoscere l’amaro; poi quel sapore lo scarti e desideri non averlo mai provato. Lei rigirava pezzettini tra le dita unte e hop! li lanciava in bocca come se stesse centrando un bersaglio mobile. Spesso non aveva mira: mi colpiva. “Smettila” dicevo; ma Melissa sorrideva e rinunciavo. La purezza dei suoi dentini bianchi mi disarmava. Solo la giostra con i cavalli di legno, e le stecche che sembrano di zucchero, la convinceva. La piccola scorgeva il tendone con le luci, variopinte e scintillanti. Emetteva un gridolino di gioia e il sacchetto veniva scaraventato per terra. Le gambine correvano avvolte nelle calze di flanella; in quella sicurezza puerile di non cadere, mai. Si arrestavano davanti al cavallo con la bardatura rosa, il suo preferito. L’aiutavo a salire sulla groppa. Mi allontanavo e la giostra partiva. Melissa mi tendeva le braccia; desiderava rimanessi. Lei si aggrappava alla mia giacca. Il profumo di acqua di colonia dei suoi riccioli cascava nelle narici. Non si stacca dalla camicia, è cucito nella memoria. Ora, che è cresciuta, scaccia suo padre come un appestato. Forse teme che la contagi con la nostalgia. “Papi, tra dieci minuti ho uno shooting fotografico”, mi dice trafelata. È mattina e sono nel suo attico. La nostra conversazione dura un battito di ciglia, il tempo di addentare l’ultimo morso del toast. Lo stringe tra le mani. È spalmato con il burro di arachidi. I pezzettini bruciacchiati li butta via. Il suo sorriso lo rivedo sulle riviste di moda. Ne sfoglio una nella sala di attesa dello studio di mio figlio. La luce rossastra del tramonto delinea un contorno sinistro sulle immagini delle modelle ingioiellate. Alzo la testa e guardo verso la finestra: la sera è vicina. La porta della stanza si spalanca.
Riccardo mi accoglie con addosso il suo camice bianco ghiaccio. “Come stai?” chiede con freddezza. Siedo sulla poltroncina di pelle, dura come lui. Provo a rivelargli cosa provo, sotto i tessuti connettivi e le arterie, in profondità. Le voce freme, è attraversata dal dubbio dell’incomprensione. Lui mi scruta in tralice dietro gli occhiali. Le lenti sono spesse come una lastra di vetro antisfondamento. Non frantumo la sua impassibilità alla mia sofferenza interiore. “Papà, alle articolazioni il dolore è diminuito?” smorza il discorso. Si interessa della superficie. Sull’uscio, mi abbraccia. Le dita velocemente scorrono lungo la schiena. I nostri corpi non si toccano.
Ricordo quando sedevamo sulle panchine del tronco. Un’attrazione del Parco Giochi. Riccardo era piccolo. Si accoccolava al mio petto con tutta la leggerezza dei suoi anni. Le manine cingevano il collo. Stringevano e avevo calore. Avvertivo affetto. Si generava un’onda che scaldava il cuore e risaliva alle tempie infervorandole. I cavalloni artificiali schiumavano e lui era ancorato a me. C’era una tale naturalezza nello slancio che mi ero illuso.
Desidero rivedere quella giostra dove la felicità sembrava eterna. La notte torno nel Parco Giochi. Quando arrivo, scorgo un uomo. Dorme su una sedia impagliata. È il guardiano del Parco, penso. Veste una divisa blu con i bottoni dorati. Quella dell’autista del bus era diversa. Era livida come il suo colorito chiazzato di paura mentre mi parlava dell’incidente. Disse che l’asfalto era sdrucciolevole, la pioggia puntellava il parabrezza. Tra le gocce d’acqua colse l’espressione spaventata del camionista, i suoi occhi sbarrati. Sterzò; la manovra fu inutile, l’impatto inevitabile. Irruppe un fracasso più forte di mille stoviglie. Le sue preghiere si mischiarono alle urla dei passeggeri. Una triste litania aleggiò nell’abitacolo distrutto. L’autista chiuse le palpebre. Aveva terminato il suo racconto. Calò un silenzio di morte. Mia moglie non doveva trovarsi nel bus. Le mie di preghiere non servirono a nulla.
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