“Saliscendi” di Anna Puricella – #dopolavoroletterario n. 62
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“Saliscendi” di Anna Puricella – #dopolavoroletterario n. 62

Il racconto che state per leggere è nato dentro LaClasse di Scrittura e narrazione de LaContent. Un laboratorio sperimentale, un ibrido tra writing coach individuale e lezioni interattive di editing. L’obiettivo è stato quello di mostrare il retro della scrittura: dall’idea allo sguardo fino a trovare la voce per scriverla. Ne sono venute fuori storie a matrioska, belle e soprattutto giuste per chi all’inizio non sapeva nemmeno da dove cominciare. Anna Puricella mi sembra che sia stata molto brava a mettere in scena prima all’esterno, poi dentro di sé e infine nella pagina la storia che voleva raccontare. Una storia che si è intrecciata molto bene a una voce narrante che sale e scende, tra ironia e amarezza. Buona lettura!  (La foto è dell’autrice)

S A L I S C E N D I

di Anna Puricella

Quando il suo piede ha lasciato l’ultimo piolo della scala la mia famiglia è esplosa.

– Non vi azzardate a vendere la casa dove sono cresciuta! – ha esordito.

La zia era venuta a montare le tende nella mia, di casa. Quando è scesa si è messa a urlare.

– Pago bollette da anni senza aver mai avuto le chiavi, a che serve tenerla? – ha protestato mia madre mentre teneva ancora fra le mani i lembi della tenda appena appesa.

Sua sorella mia zia era diventata all’improvviso una furia, mai visto una vena della fronte così gonfia. Le ha rinfacciato quello che aveva celato per una vita: mia madre laureata e lei no, mia madre maestra di migliaia di bambini e lei no, figli neanche ne ha avuti. C’era questo, nella casa che le aveva viste crescere: il livore era brace sotto la cenere, guai a dargli aria. E invece la zia aveva approfittato del momento che sanciva il mio ingresso nell’età adulta per soffiare: una casa nuova – la mia – dove di mobili ce n’erano così pochi che il vento che entrava dalle finestre non avrebbe trovato ostacoli per farsi tempesta.

Poco prima mia madre aveva ricordato che al matrimonio di quel lontano parente io indossavo un paio di scarpe di vernice rossa. Al ristorante ero stata tutto il tempo con i piedi sul tavolo, sfacciata, perché mia zia le notasse. – Guarda! Guarda! – le ripetevo ossessivamente. Quando la storia della mia famiglia è finita, fra le mura fresche d’intonaco del mio appartamento, fra le tende che si gonfiavano al vento e le urla di mia zia che fagocitavano lo sgomento di mia madre, io quelle scarpe le ho riviste, per l’ultima volta.

I contatti con la zia si sono poi interrotti. Sembrava tregua, ma se poggiavo l’orecchio sul pavimento come facevano i pellerossa sentivo la terra vibrare. Il terremoto sarebbe arrivato, bisognava solo aspettare e attrezzarsi al meglio per parare i colpi. Per le feste comandate che erano seguite, quelle in cui un tempo ci si sedeva tutti insieme allo stesso tavolo fra lasagne arrosto di carne e auguri di ordinanza, mia madre non aveva più scelto il servizio di piatti migliore dalla credenza. Sembrava non badare al fatto che ne servissero meno, e che non bisognava prendere sedie da altre stanze perché quelle del soggiorno bastavano. La festa era finita, lei era scesa in trincea. Dall’altra parte della barricata c’era mia zia. Prima o poi qualcuno avrebbe sparato.

I vigili avevano incaricato me di avvisare tutti. La casa della nonna sarebbe stata abbattuta. Troppi anni passati nell’indecisione, la guerra fredda fra le due sorelle l’aveva affossata nel limbo. Non si era proceduto con la vendita, tantomeno con il restauro. Cadeva a pezzi, come la faccia di mia madre: aveva continuato a pagare le bollette e a non protestare, ma a un certo punto il Fuoco di Sant’Antonio le aveva mangiato il viso. Pericolante, come quella casa della sua infanzia che ora metteva a rischio l’incolumità di vicini e passanti. Quella della mia famiglia era già saltata in aria.

Non volevo chiamarla, mia zia. Quando le suonava il telefono partiva “La notte vola” di Lorella Cuccarini. Gliel’avevo scelta io quella canzone, un omaggio alla mia infanzia, a quando lei la ballava e io cercavo di imitarla. Chissà se a ogni telefonata ricevuta mi pensava, o se il ricordo della nipote perduta le aveva provocato così tanto dolore che aveva chiesto aiuto a qualcuno per cambiarla. Non potevo saperlo.

I vigili comunicano che domani la casa della nonna sarà abbattuta, alle 11”. Alla fine al pensiero di sentire la sua voce dopo tanto tempo non avevo retto. Le avevo inviato un messaggio. Codarda.

Il giorno dopo ci siamo trovate lì davanti. Io e lei, mia madre l’avevo costretta a restare a casa, le avrei fatto avere notizie. Ci siamo tenute a distanza, una di fronte all’altra agli estremi della casa della nonna. La facciata dipinta di grigio devastata da crepe profonde, l’intonaco si era frantumato in più punti ed era venuto giù. Quando la ruspa ha cominciato a lavorare ho infilato i pugni nelle tasche dei jeans, serrato i denti e cercato di guardare mia zia negli occhi. Lei però li teneva bassi, ogni tanto portava un fazzoletto al volto per metterci dentro le lacrime. Al quinto colpo della pala la vista si è aperta: la facciata della casa della nonna non esisteva più, dal marciapiede si entrava direttamente nella sala d’ingresso, quella dove c’era stato il grande tavolo delle feste di famiglia.

Ho fermato l’operaio che si preparava a sventrare ancora. Ho bussato con forza all’abitacolo dove manovrava i comandi, e visto che non mi sentiva per tutto quel clangore, mi sono parata davanti a braccia spalancate. La pala è rimasta sospesa a mezz’aria, sopra la mia testa. Gli ho fatto cenno con la mano di aspettare, gli ho dato le spalle e mi sono fatta strada fra le macerie.

Ho spazzato via i detriti con i piedi e l’ho visto, era rimasto lì dove l’avevo notato appena arrivata: il limitare della casa della nonna, un blocco di cemento grigio chiaro impastato con pietruzze colorate, quelle nere usate per scrivere le iniziali del nonno, cognome e nome, il proprietario. Seduta lì sopra avevo passato l’infanzia, le sere d’estate ad ascoltare le chiacchiere degli adulti in cerchio davanti all’uscio per prendere fresco. Era stato il mio passatempo, a contare quante pietre nere c’erano volute per comporre il nome del nonno, a ripassare il dito sulla piccola linguetta di ferro che vi era rimasta incastrata forse per errore, e che si faceva più lucida via via che la gente entrava e usciva da quella casa, figlie e parenti, vicini e sconosciuti e anche me, piedi piccoli e scarpe rosse. Su quella lastra di cemento avevo aspettato di incontrare gli altri bambini del quartiere per giocare, avevo sbucciato mandorle e cantato filastrocche facendo saliscendi con i piedi, sempre più veloce fino a perdere il fiato.

Ho afferrato la soglia, l’ho sollevata al petto e tenuta fra le braccia come l’icona del santo in processione. Mi sono posizionata al centro della strada, di fronte a mia zia che mi guardava sbigottita.

– Vola con quanto fiato hai in gola il buio ti consola! – le ho urlato. Al suo primo passo verso di me ho cominciato a correre dalla parte opposta.

– All’ombra di un respiro la notte vola!

Ho continuato a cantare mentre allungavo le gambe fino allo stremo, ma le parole non le ricordavo più.

– Io ti sarò vicino ti prego resta sempre bambino! – ho ripetuto un paio di volte stringendo le dita alla lastra. Mi sono voltata quando ho ritenuto di essere a distanza di sicurezza, ma la zia era sempre rimasta al suo posto e scuoteva la testa. La ruspa aveva ripreso a scavare.

Sono tornata da mia madre tenendo l’ingresso di casa della nonna fra le braccia, sudata, i vestiti impolverati.

Il trofeo di battaglia.

 

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