Recensione | Valerio Millefoglie, Tutti vivi, Mondadori
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Recensione | Valerio Millefoglie, Tutti vivi, Mondadori

Mondadori 2024, pag. 350, 19 eu

In una landa stepposa, una folla di sedie bianche di plastica attende davanti a un tavolo su cui è posato un microfono con il filo piegato. Qualcuno sta per raccontare una storia. In quel momento nessuno è pronto ad ascoltarla. Mancano pochi minuti alla commemorazione della tragedia sul Trebbia, di cui nel maggio 2022 Valerio Millefoglie scriverà sul Venerdì. Non è la prima volta che racconta storie di piccole comunità dall’impatto universale. Ma questa volta è diverso. La vicenda ha scosso la comunità perchè, come spiegherà in seguito Millefoglie, «parla del tempo e della possibilità dell’inesistenza del tempo, dell’essere coetanei anche con età differenti. Per me era importante raccontare cosa accade quando abbiamo vent’anni, è un libro che va indietro nel tempo per dimostrare che il tempo non esiste.» A due anni di distanza,quella foto è la copertina di Tutti vivi, uscito poche settimane fa per Mondadori (Strade Blu).

La vicenda comincia nella notte tra il 10 e l’11 gennaio 2022, ai piedi del fiume Trebbia, nel comune di Calendasco vicino Piacenza. Elisa Bricchi, Domenico Di Canio, Costantino Merli e William Pagani muoiono in un incidente d’auto: «A causa della scarsa visibilità data dalla nebbia fitta non vedono la fine dell’argine e precipitano, annegando.» Hanno tra i 20 e i 23 anni. Sono gli Oorigine, un collettivo trap e rap, con due O come il simbolo infinito. Scrivono, suonano, si producono da soli. Alle famiglie ripetono che la musica è la loro ragione di vita. Pochi giorni dopo l’incidente, Filippo Lezoli, un giornalista del quotidiano locale Libertà contatta Millefoglie, per fargli ascoltare i loro brani e chiedergli un’intervista. Qualche settimana dopo, la famiglia di Domenico scrive a Millefoglie. Da quel momento, per due anni, l’autore diventa occhi, orecchie e cuore degli Oorigine. Vivrà con loro, prima come custode del ricordo e poi come amplificatore della loro musica. «Il cavo che collega lo smartphone di Carmine di Canio all’autoradio è un cordone ombelicale musiale per sentire ancora il figlio.»  I Di Canio sono pugliesi, di Ginosa. Vivono su da una decina d’anni. La contrada dove il figlio è morto si chiama “Puglia”. Non è destino, è la storia. Come suggerisce l’autore quando ripete che non è affatto vero che tutto è già stato scritto. Una riflessione che smonta punti di vista e certezze sulla narrazione come traccia. Millefoglie condivide giornate intere con i parenti delle vittime, li ascolta con pudore senza domande scontate e li osserva con innocenza quando si muovono in casa con la cautela di chi non vede lo spazio vuoto dell’assenza. «Mi interrogo su quale sia stato il suono della casa in quel momento. Mi chiedo se ci siano diverse intensità di silenzio, se ciò che proviamo vada a imprimere un volume più o meno profondo all’ambiente, in consonanza non con come ci sentiamo.» Se la storia all’inizio è una presenza casuale per l’autore, poi diventa il doppio fondo di un’ossessione personale: «Fino a quando il pianeta esisterà e il museo esisterà, la memoria rimarrà. Saranno tutti vivi.» Di cosa si occupa chi racconta se non di celebrare la memoria e trasformare ogni fine in un eterno inizio? Tutti vivi supera la fredda testimonianza e diventa una commossa riflessione sull’eredità dei figli per i genitori. La rappresentazione intelligente dell’umana volontà di fronte alla perdita, narrata con il garbo di un autore e la profondità di un coscienzioso reporter.

 

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