Recensione | Lucia Perrucci, La prodigiosa macchina cattura anime di Cassandra Apollinaire, Mondadori
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Recensione | Lucia Perrucci, La prodigiosa macchina cattura anime di Cassandra Apollinaire, Mondadori

Mondadori, 352 pag., 17 euro

L’esordio nella narrativa per ragazzi della manduriana Lucia Perrucci, scrittrice e sceneggiatrice, in poche settimane, è diventato un caso tra lettori di tutte le età. Complici la prosa curata e chiara, mai didascalica; la caratterizzazione di personaggi e ambientazioni che incrocia il Fantastico con echi del surrealismo francese. Determinante è il tema. L’autrice riprende, senza farne sentire il peso, un tema letterario ben riconoscibile: qual è legame tra la vita e la morte? E come l’essere umano può superarlo? La letteratura fantastica ha una relazione stretta con la scienza e le sue sperimentazioni. In entrambe le discipline è sotteso un fine: superare i limiti umani, cioè la morte. È ciò che tentano di fare tutti i personaggi annientati, nel bene e nel male, dal troppo amore che li porta ad avere un’unica ragione di vita: sconfiggere l’assenza di chi si è amato. Parigi, 1971. La famiglia Sélavy ha perso il piccolo Louis, pochi anni prima. La difficoltà di accettare la perdita coinvolge, in particolare, i tre fratellini che desiderano riportarlo in vita grazie alla macchina prodigiosa, che sembra essere nata apposta. Il piagnucolone e imbranato Yves, il precisino André “il maggiore dei maschi rimasti” e René, che per un errore dell’anagrafe si ritrova un nome maschile ed è il punto di vista da cui seguiamo la maggior parte della storia. È lei la gemella di Louis, in realtà la maggiore dei Sélavy. Affetta da sindrome post-traumatica, alterna gioia e dolore, rabbia e determinazione fino a quando la prodigiosa macchina non le cambierà la vita. I Sélavy scopriranno che (forse),  diventare adulti significa “distinguere le informazioni fantastiche da quelle reali”.

Tra scienza, magia, gotico e mistery comincia un’avventura avvincente quanto delicata che viaggia nel tempo e nello spazio, rispettando l’impianto narrativo classico dei romanzi d’avventura. «Volevo scrivere da tempo di una famiglia un po’ strampalata e del potere delle immagini, provando a trasmettere il fascino della fotografia così come me l’ha raccontata mio padre (ex fotografo), fatta di istanti di luce e di attese nel buio, ma anche di vecchi aggeggi che fanno rumore». La natura proteiforme del romanzo contribuisce al suo magnetismo, segno di un’elegante passione dell’autrice per la fotografia, di cui la storia è intrisa come fosse una sorta di magia. Una magia che si rivela nell’accurato apparato grafico, come l’accattivante illustrazione di copertina, opera di Elisabetta Stoinich e Luisa e Laura Lodetti, fino alle illustrazioni interne a cura di Stefano Moro, che omaggiano il perturbante letterario da Mary Shelley in poi.

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