Mani sporche di Simona Di Punzio – Dopolavoroletterario n. 72
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Mani sporche di Simona Di Punzio – Dopolavoroletterario n. 72

La direzione di una scrittura spesso è ignota, a parte il talento. La voce e la scrittura di Simona sono dense di talento, inteso come ritmo, capacità di vedere oltre il dettaglio e forza dirompente nell’accezione più positiva. Questo breve racconto, come molti altri che ho letto durante i nostri percorsi soprattutto legati a Una storia tutta per sé, dimostra come si possa raccontare una cosa piccola per dire una cosa grande seguendo la percezione narrativa.

Mani sporche

Simona Di Punzio

Avvicina il piatto a me, con lentezza, prendendolo con due mani bardate di tovaglioli perché nel movimento venga assorbita qualsiasi fuga di schizzi. Si alza, avvicina la mia sedia al tavolo facendo pressione col ginocchio destro sollevato, mi sistema di nuovo il piatto, gli fa fare dei giretti monchi a destra e a sinistra, e io le sento il seno sollevarsi sotto la spinta della mia spalla, le vedo il fazzoletto di stoffa che ci infila in mezzo per assorbire il sudore, il ciondolo della catenina d’oro con la cicogna incastratovi di sbieco. Mi spinge ancora di più verso il tavolo fino a quando non ne tocco il bordo col petto ossuto, prende un lembo della tovaglia e me la incastra con due mani nel collo della maglietta, lo fa con foga e mi graffia. Glielo faccio notare e mi dice di non esagerare. Io inizio a sentir caldo, è estate, la tovaglia mi copre il corpo come quando taglio i capelli dal parrucchiere. Mi lamento, mi dice che se fossi più garbata a mangiare quella tovaglia non sarebbe necessaria, le dico che non ho più fame e che non mangio, nonostante la saliva che mi inzuppa la bocca da quando ha scartato il pollo a girarrosto, ne ha tagliato cosce e ali, inciso il petto. Non sopporto mangiare con la bavetta. Mi minaccia, mi dice che se mi sporco mi farà passare i guai. Mi libero da quella bardatura, lei si siede, «mangia dai, che se no si fredda», mi spinge il piatto ancora più vicino. Io infilo gli indici nell’incisione e apro finalmente il petto, scrosto pezzettini di pelle dorata che, messi in bocca, iniziano a scricchiolarmi di pepe e bruciature. Le dita unte, zuppe di sale e di succo al rosmarino. Lei mi pulisce col tovagliolo mentre mangio, me lo struscia sui musi sbuffando. Appena vede che qualcosa sta per colarmi emette suoni di spavento, si lancia impaurita, di scatto, a raccoglierlo con un fazzoletto prima che tocchi terra o il tavolo. Io sfilo straccetti di carne con pollice ed indice con cui me li porto in bocca, e che estraggo, poi, una volta lasciato il pollo tra i denti, succhiandomeli a turno con un rumore di piedi nelle ciabatte bagnate. Lei mentre mangio mi gira il piatto dalla parte meno mangiata. Non mi permette di toccare la bottiglia dell’acqua con le mani, prima me le pulisce avvinghiandoci attorno gli scottex e sfregando, chiamandomi maledetta, poi l’asciuga con la pezza e mi versa dell’acqua. Emette rumori gutturali da sforzo, ha la sua espressione di disappunto che le porta la testa indietro e le fa spuntare altri due menti, gli occhi spalancati, la voce, acutissima, le esce a scatti, ha quel trillo di quando si cerca di trattenere le lacrime. Mi allarmo, ma continuo a mangiare, ripulisco le ossa, le dita s’infradiciano di nuovo, mi sporco la maglietta. Mi passa i tovaglioli gridandomi lo sapevo, stronza, ma non li uso, e, quando si alza per andare a prendere il borotalco da mettere sulla macchia d’olio, mi pulisco le dita sulla tovaglia bianca, per dritto e per rovescio, sulla parte di sotto perché non se ne accorga. Torna, mi ordina di alzarmi, sparge il borotalco sulla macchia ed inizia a strofinare con vigore, dopo un po’ sento la pelle bruciare in quel punto, grido ahia, lei continua, inizio a piangere per il dolore. «Lascialo in posa che poi lo laviamo», liscia un po’ la voce fino allora granulosa come diventa la bocca quando mangi le vongole lavate male. Mi intima di non piangere perché non è successo nulla di grave, non l’ho fatto mica apposta a sporcarmi, sto esagerando, lei non si arrabbia per così poco. Mi libero, ritorno a ripulire la carcassa con dentro un’impressione di ebrezza mortificata.

 

 

 

 

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