03 Lug L’uomo di cui è innamorata di Verdiana Mastrofilippo – Dopolavoroletterario n. 22
Verdiana ha partecipato ad “Una storia tutta per sé” che si è tenuto a Molfetta, al Ghigno. Questo racconto viene dopo acver partecipato al laboratorio, dopo aver ammesso che per lei il problema dello scrivere è la fine che non vorrebbe avvenisse mai e prima di aver compreso invece che finire una storia tutta per sé è il primo passo verso un inizio. Quello che le auguro. (Immagine presa da qui http://www.joewebbart.com)
L’UOMO DI CUI E’ INNAMORATA
di VERDIANA MASTROFILIPPO
Le si aprono gli occhi sul cielo di intonaco della sua stanza. Scrostato un po’ al centro, in un ritaglio seghettato che somiglia ad una nuvola. Stende le braccia nel fresco del cotone delle lenzuola, per un attimo non fa nulla, il fianco fa un po’ male, nemmeno tanto, proprio poco.
I secondi calano fiacchi, tutti intimamente uguali, riempiendosi del sapore della segatura: la sensazione di qualcosa che rimpicciolisce, perdendosi nel fango dei tessuti molli e delle ossa cave. La colpisce sinistro il fremito del vuoto in pancia, che sembra succhiare con la cannuccia la volizione a mettere i piedi a terra per alzarsi dal letto.
Capisce che non è solo pigrizia.
Capisce che, fino a quando è immobile, non succede nulla.
La terrorizza quel pensiero, si alza con uno scatto fulmineo che le frusta il collo.
Caffè. Latte. Dolcificante alla stevia, che magari è una cazzata che fa bene o fa meglio o non fa tanto male, ma credere ad una cazzata in più non le risulta che sia tutto questo granché.
Sorriso alla madre. Sorriso al padre. Sorriso al fratello. Poi aggiungere anche qualche sbuffo e una parolaccia soffocata, che fa meno pubblicità delle merendine della Kinder.
Sneakers rosse, poco trucco, già in ritardo.
Scappa nell’ingresso, il padre nel vano della porta. Saluti monchi alla porta chiusa.
Sei sempre stata una bambina.
Argento vivo, vita ad orecchio, cuore in panne, meteora a spruzzi di luce continua sulla mia vita: volevo un’altra come tua madre per vincerla sfinita alla lotteria della vita e per farti innamorare di me, riottosa e sconfitta, come lei si è innamorata di me.
Poi nasci tu, involto di coperte rosa, peso tra le braccia, e spalanchi gli occhi. E già so che non sarai come lei, ma inaspettatamente come me. Che quasi mi ero tolto da quell’equazione di sangue ed ossa che ti aveva generato, quasi come se fossi figlia solo di lei, e mai di me. Ed invece ti vincevo in un modo diverso, dandoti un’eredità pesante, bambina mia.
Tutto passa, tutto entra, granelli e minuzie di vita. Detonano e fanno danni come pianetini ed asteroidi impazziti. Eppure, se non vivi così, muori. Se lasci fuori qualcosa, muori. Lo capii vedendo i tuoi occhi. Azzurri, aperti di cielo e mare. Sconfinati.
Saresti stata persino peggio di me, più affamata, più vogliosa, più aperta e pronta a tutto. A vivere, a sentire. Io avevo dalla mia la superficialità di scegliere cose poco importanti. Mi sono sempre difeso così. Con la leggerezza. Non mi facevo tanto male. Ma tu in più avevi ereditato la profondità caparbia ed ostinata di tua madre, non avresti mai tralasciato nulla. Ti avrebbero fatto a pezzi.
Sarei stato la tua armatura. Non avrei concesso nessun ingresso al tuo cuore. A nessuno.
Io, con le mie storie arroganti, la musica dei Guns n’ Roses in macchina, la cioccolata bianca nascosta nelle federe dei cuscini, il gelato al pistacchio la domenica mattina, le corse a perdifiato: sarei stato io il tuo muro e fossato e difesa.
Ma le principesse non dormono nei castelli dentro le foreste di spine, protette da un drago che chiamano papà.
Le principesse ad un certo punto, prendono ed escono fuori e guardano il sole e guardano il cielo ed abbandonano le storie arroganti, la musica dei Guns n’ Roses in macchina, la cioccolata bianca nascosta nelle federe dei cuscini, il gelato al pistacchio la domenica mattina, le corse a perdifiato, ed anche i fiocchi rosa, le palle rosse, i peluche verdi, le scarpette di vernice: e si innamorano. Ecco che fanno. Si innamorano.
Corre per strada, l’ufficio pare la Mecca in un deserto di cemento e asfalto bagnato, la gente come cammelli stitici di saluti. Giacca canarino troppo leggera, di panno, ha cominciato a piovere. Marzo. La pressione azzurra del cielo contro le nuvole grigie e nere sul fondo delle antenne della tv: un ritaglio incoerente ed inconsistente, quasi falso, quasi attaccato all’orizzonte come una cartolina sbiadita.
Balzelli, saltelli sulle pozzanghere, come una cavalletta dalle zampe mai stanche. Ogni giorno risparmia quel minuto che non le ridaranno indietro in moneta, rispetto, considerazione. Corre, musica nelle orecchie, una canzone triste, le canzoni tristi fanno effetto a chi è infelice, lei è felice, meravigliosamente felice. Lui occhieggia da un piccolo portachiavi appeso alla borsa, braccio attorno al collo, presa forte, non lasciarmi andare.
Non la lascia andare mai.
Corre, le scarpe di tela bagnate di rosso, pensa ai calzini grigi macchiati come di sangue, le scarpe stingono, sua madre chi se la sente. Un colpo di vento le soffia in faccia un singulto di odore di fiori freschi, non c’è niente nella pioggia, eppure le si affannano gli occhi di malinconia.
La pensilina della metro, posti solo in piedi, la pioggia resta fuori almeno, ruggisce sul tetto di alluminio. La musica si interrompe, squilla il cellulare, un trillo, due, tre. Una suoneria specifica, corruga la fronte, la riconosce.
Sbuffo, calcio in pancia, stomaco sottosopra.
Una suoneria impostata per qualcuno di specifico: quello lontano, quello che metteva in guardia, quello che non vede più.
Amico.
“Non è mai stato un vero amico, credimi, amore. Ti voleva scopare e basta”.
La mano si scotta come nelle fiamme.
Il telefono in tasca, di nuovo, impostato sul silenzioso.
La chiamata che accende la tasca di luce tremula.
Sei sempre stata una bambina.
Tiravi. Strattonavi. Mano nella mia. E ti venivo dietro, incosciente.
Alberi come castelli, cani come draghi, mondo stupido e violento come paese da fiaba: e tu non eri regina, principessa, compita dama seduta su un cuscino cremisi. No: eri Lancillotto, Mercuzio, Orlando, Achille. Come me. Accanto a me. A nasconderti la gonna, a legarti i capelli, a sorridere mascolina di grazia assente.
Mano piccola nella mia, sempre nella mia. Mano adesso pulita, sempre, perché c’è la scuola, lo studio, il disegno, il canto. Mano che però tira sempre, ed ancora dove ce l’hai nascosta questa forza, che sei fuscello, ramoscello, stecco. Entusiasta, sempre: occhi azzurri di ricerca e conquista, di dolcezza e rabbia, di magnete e marea: “Vuoi venire con me a studiare matematica?”, “Mi spieghi il teorema di Pitagora?”, “Lo sai che adesso riesco a fare il ritratto perfetto della mia professoressa Isabella?”.
Tiravi ancora. Strattonavi ancora. Mano nella mia. E ti venivo dietro, incurante, indifferente. Incosciente.
Sei ancora cavaliere della Tavola rotonda, ma adesso non nascondi più la gonna, non leghi i capelli, non sorridi maschile. Raccogli adepti, commilitoni, soldati: fedeli scudieri della tua grazia incolta.
Io sono tuo pari, tuo amico, tuo compagno. Gli altri sono solo gli altri. Io sono il solo custode del tuo segreto, celato nella tua mano chiusa nella mia. Sei nata senza sesso, senza odore, senza colore. Solo per essere mia sorella e mio fratello, mio amico ed amica, mio tutto e mio niente assieme.
Mano piccola nella mia, mai più nella mia. Mano liscia, sempre, perché c’è l’amica, la confidente, il ragazzo più grande. Lui. Mano che non tira più, anzi sguscia via lontana, e stringe con forza altro, e mi chiedo dove ce l’hai nascosta quella forza, che sei fata, vento, farfalla. Bellissima, sempre: occhi azzurri di amore e morte, di passione e redenzione, di magnete e marea: “Lasciami in pace”, “Se vuoi bene a me, devi voler bene anche a lui”, “E’ meglio che non ci vediamo mai più”.
Non tiri più, non strattoni più. E io… incosciente.
Sei stella, luce riottosa e pianeti attorno: gonna che gira, capelli che ondeggiano, sorrisi che esplodono. Amanti, amati, ammirevoli amori da tre giorni ed ammirati amori da una vita intera. Ma gli altri sono gli altri. Io sono il solo custode del tuo segreto, scivolato dalla tua mano fuori dalla mia, spezzettatosi nel cuore che ti ho spezzato e sfioratosi nel bacio che ti ho sfiorato.
Sei nata senza sesso, senza odore, senza colore. Ma solo per me.
La gente si stupisce quando uno ride da solo, non quando piange.
Fuori programma con le amiche. Karaoke, pizza, birra. Non esci mai, stai sempre con lui. Poche ore soltanto. Accetta, le gambe tremano un po’, la voce meno mentre parla al telefono: stanca, è terribilmente stanca, le misure della vecchia, mi faccio un passato di verdure e vado a letto. Pare convinto, pare mansueto, il fianco smette persino di fare male, nonostante la borsa a tracolla che preme sempre come un promemoria tattile che non ascolta. Bugia, menzogna, inganno. Innocente omissione, dice dopo allo specchio mentre si trucca, prende la macchina, esce. Locale solito, insegna che ronza sempre un po’, pizza margherita a tre euro e cinquanta.
Loro sono alte, aguzze, occhi complementari come un quadro: ridono troppo, chiacchierano troppo. Una si sposa, l’altra si è lasciata di nuovo, un’altra ancora si è trovata uno per una botta e via, sono tutti coglioni.
Lei non parla. Lei ha il principe azzurro, lei non merita di lamentarsi.
Ride un po’, beve un drink verde e ghiaccio, addenta la decorazione di limone per bruciarsi la lingua.
L’attrattiva è il palco illuminato di faretti scadenti, lo schermo con le parole che vanno ad intermittenza, il microfono aperto.
Canterà ancora, di nuovo, solo per quella sera, promesso, guarda la porta, ogni sagoma sembra lui. Si fa piccola sulla sedia.
Bancone, di nuovo. Un altro drink passato di mano in mano fino al destinatario.
“Di nuovo qui sei, razza di isterica?”, “Solo per dar fastidio a te, idiota!”.
Volta le spalle magre ostinatamente ai bicchieri che continua a servire.
Quello, invece, punta gli occhi dentro l’incavo tra le scapole, fingendo di avere lo sguardo assente.
E’ un punto morbido, tremulo, lo segue mentre lei va a cantare, le amiche che urlano ancora.
Canta, un po’ persino urla, un’altra canzone triste, le canzoni tristi fanno effetto a chi è infelice, lei è felice, meravigliosamente felice. Tra i liquori e le birre, le mani ferme sul bancone, non smette un secondo di guardarla.
Sei sempre stata una bambina.
Guance rosse, occhi lucidi, smorfia e broncio: odiosa, insopportabile, voce leziosa di mamme dimenticate e mai esistite. Calzettoni colorati, trecce e nastri, saltelli sul posto, pozzanghere evitate, schizzi d’acqua ed urla. Giravolte, balzi, filastrocche. E voce d’angelo dannato.
No.
Voce di bambina fastidiosa, che se ne cammina a naso alzato senza capire nulla del mondo e della vita, che insulta la vita vivendo, che sbeffeggia la povertà essendo ricca di sole, mare, cielo, posti che sa solo lei. Che non esistono. Che non possono esistere. Che stanno tutti annegati e sepolti in quegli occhi azzurri che ci fai l’amore solo a guardarli.
No.
Occhi azzurri, storti, nascosti da palpebre fastidiose, frementi, ticchettanti di domande e di risposte che non fai manco in tempo a darle. E chissenefrega che la pensassi diversamente, tanto ha sempre ragione lei, tanto ce l’ha scritto addosso che ha sempre ragione lei, tanto è nata con il destino giusto e la vita giusta ed il mondo giusto. E che Dio non glielo tolga mai il suo mondo giusto.
No.
Glielo tolga quel mondo giusto, che si sporchi del mondo sbagliato, che cresca una santissima volta nella vita, che non si canta così con quella voce da cuore di vetro che poi lo vedono tutti come sei fatta dentro e ti fanno a pezzi cinque secondi dopo, una dannata battuta dopo, una decina di note dopo. Ma lei no, lei non la fanno a pezzi, lei la vita la morde e sfida, la mangia e spolpa, e in compenso quella si moltiplica come pane e pesce tra le sue dita voraci. Le sue dita piccole, tenere, lievi, che accarezzano il microfono come io accarezzavo la chitarra, come accarezzerebbe chi se la prende per la prima volta, come accarezzerebbe me per la prima volta.
No.
Pedofilo, maniaco, bestia ed animale: con le bambine non ci si deve avere nulla a che fare. Nulla, con i capricci, le smorfie, i pianterelli isterici, i sorrisi delle prime volte, la bellezza da bocciolo appena nato. Manco se tu hai pochi anni più di lei, ma bambino non sei stato mai, e quindi la sporcherai e basta, la violenterai e basta, la inzozzerai e basta. Di sangue, marciume, lercio, lordume. Che è vita anche quella. E lei non c’entra niente, e non deve c’entrarci niente, deve starsene fuori nella sua cupola da fantasma da fiaba, non permettendosi neanche di aprire bocca e di giudicare, labbra rosse che chissà come baciano, no, labbra rosse che quando stanno chiuse fanno un piacere al mondo. Canta lei, usignolo con una spina nel cuore a colorare le rose.
Crepasse lei d’amore. Tu non sai che fartene dell’amore. Non dà da mangiare, da bere, da vivere.
Affama, asseta, uccide. Se lo tenesse lei l’amore.
Tu vomiti note su una chitarra scordata, dimenticandoti persino come si accorda, scordandoti che sono solo bicchieri da riempire. Il suono così falsato distorce meglio i pensieri, disturba le orecchie, fa eco ai pensieri, confonde.
Quella nenia. Quella canzone. Quella litania.
Fa che sia io. Fa che non sia mai io. Magari fossi io. Che gran rottura se fossi io. Dimmi che sono io. Cantami che sono io. Chissenefrega se sono io.
L’uomo di cui sei innamorata.
Esce fuori nella notte, ha smesso di piovere, pare tutto sereno, freddo intenso, pungente, spilli ruvidi e bollenti sulla pelle delle guance, velluto denso e nero a pesare sulle case.
Saluta le amiche, si danno un appuntamento monco, giovedì ho palestra, e mercoledì? Manuela lavora fino alle 20, nel weekend è impossibile, dai allora ci sentiamo, certo ci sentiamo, guida piano, chiama quando arrivi, manco mia madre.
I passi sul selciato, tacchi quadrati contro pietre tonde, ticchettio di un orologio che chiama Cenerentola all’umiliazione del sogno distrutto e della carrozza diventata ortaggio.
La macchina, accelera il passo, cerca le chiavi nella borsa sempre troppo piena, bottiglietta d’acqua, ombrello, cuffie, le chiavi finalmente.
Lo vede, d’improvviso, appoggiato con il fianco allo sportello. Sorride dolciastro: un sorriso rancido come in suppurazione, gli angoli della bocca quasi agli zigomi, “dove credi di andare”, è la bocca di “dove credi di andare”. La riconosce subito.
“Piccola idiota, dove penserai mai di andare? Non sai fare nemmeno tre passi senza di me”.
Parole di rosso: come negli occhi del toro. Ma al contrario, perché il rosso ce l’ha sempre lui negli occhi, nelle mani, nei denti, nei gomiti, nelle ginocchia. Si accende veloce, un semaforo bloccato ed intermittente che non dà mai segnale di via.
Ce l’ha ovunque il rosso, dappertutto, è una macchia carminio che cammina, mastica, sputa e si rapprende poi sul blu dei suoi occhi.
Spegnendoli, chiudendoli.
Quando lo guarda, adesso, lo sa, lo trattiene disperatamente nella testa. Ma dopo se ne dimenticherà daccapo, bella addormentata che dorme altri mille minuti di attesa non del bacio, ma dello schiaffo.
Schiena che rovina di sudore, granchi ghiacciati a passeggiare isterici sulla colonna vertebrale, piedi chiusi nelle ballerine rosse che restano incollati ai sanpietrini scivolosi che graffiano la suola.
Balbetta qualcosa, indossa come un manto quell’abito di vergogna vereconda che lui le fa calzare con il sorriso lascivo, accondiscendente, infinitamente gentile e generoso: mi ci hai costretto tu, dirà dopo, lo sai che io non sono così.
Si avvicina, un passo, due, tre, quattro, otto. Troppi.
Il cuore le schiaffeggia le costole prima ancora che lo faccia lui.
Prima ancora che lui urli, minacci, gridi, percuota, calci e faccia sanguinare.
Lo guarda dal basso, quando gli occhi si stanno per chiudere pesti, rosso nel blu.
Implora lo sguardo del padre, dell’amico, del finto nemico.
Ma lui non la vede neppure, non la pensa neppure, occhi di fiera mangiata dai tarli.
Non la guarda neppure.
L’uomo di cui è innamorata.
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