“L’amore compreso” di Pierangela Colosio – Dopolavoroletterario n. 23
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“L’amore compreso” di Pierangela Colosio – Dopolavoroletterario n. 23

Questo racconto fa parte delle prove finali di “Scrivere i sentimenti”, il mio corso online a cura della Scuola Holden (che riparte a Settembre!).

Trovo che questo sia un racconto così meraviglioso, di quelli che si appiccicano come qualcosa che non doveva restare addosso ma poi ci resta e ci piace.  In un corso in cui si legge  e si scrive per imparare a raccontare i sentimenti dentro una storia, il rischio è  far esplodere una voce che viene da lontano e ci stringe con il rischio di strozzarci. Ne “L’amore compreso” questo non avviene, non si sente la stretta  e la voce di chi racconta si allarga fino ad accogliere anche la nostra.  Buona lettura (la foto è dell’autrice).

L’AMORE COMPRESO

di Pierangela Colosio

Quel giorno c’era un bel sole, che potevamo stare nel cortile col grembiule soltanto. I maschi correvano in tondo, come fanno i cagnolini quando sono felici. Si sentivano tanti strilli che facevano una musica ed erano sempre i bambini a gridare di più quando correvano. Le bambine erano tante, ma io provavo invidia per i maschi, facevo finta di niente e stavo seduta da sola sulla panchina e sentivo il freddo della pietra, ma quando lui correva davanti a me si faceva un buco troppo caldo nella mia pancia. Anche se i maschi volevano correre senza femmine, gli correvo vicino con il coraggio, volevo sapere se mi amava come io sapevo di amarlo, ma lui si teneva tutto chiuso dentro. Il fiocco azzurro del suo grembiule era lungo e volava dietro al collo e mi faceva ridere, i suoi capelli rimanevano immobili come una spazzola bionda, gli occhi verdi mi guardavano senza muovere la faccia che teneva dritta davanti, mi faceva venire in mente quegli uomini col cappello e la sigaretta che si vedono al cinema, quelli che non guardano le donne. E questo mi dava tanto dispiacere. Il simbolo sul mio grembiule era una chiesetta, avrei voluto avere il coccodrillo, lui invece aveva un dado. Si chiamava Costanzo io Marta, aveva la mia stessa età, cinque anni, come nella canzone, quella che inizia con Bang Bang.

A casa per consolarmi facevo le prove col cuscino di come avrei potuto baciare. Avevo sentito che sua mamma si chiamava Maria e che suo papà l’avrebbe voluta uccidere e così, per evitare di ammazzarla, se ne era andato di casa. Era amica con mia mamma che si chiamava Lucia perché mio papà era amico del suo di papà, e un giorno che mia sorella era dai nonni, avevamo potuto andare a trovarli mentre mio papà era andato lontano proprio a cercare il suo. Anche lui aveva le sorelle, una più di me, già grandi che erano partite per studiare, per cui eravamo noi, soli con le due mamme, che si sa, appena possono si mettono a chiacchierare mentre cucinano. Maria, la sua mamma, forse aveva capito qualcosa del mio amore ed era stata molto brava perché nella bella cucina con i mobili dipinti di bianco, aveva tagliato le verza sottili per noi, le aveva messe nella padella e poi con l’aceto aveva fatto i crauti. C’era un tavolino piccolo contro il muro, sempre dipinto di bianco ed era solo per noi due, che mangiavamo di fronte, non mi sembrava vero che lui mi era proprio davanti, a volte abbassavo gli occhi perché poi mi piaceva così tanto rialzarli e rivederlo, tant’è che muovevo le gambe sotto il tavolino dalla contentezza. Oltre al fatto che avevo le calze bianche traforate e le scarpe di vernice con il laccio e il bottoncino, nuove fiammanti, che più felice di così non potevo. Ah! Come era stata brava la sua mamma: sorrideva un po’ nel vederci così, anche se era pure triste. Alla mia di mamma piaceva di sembrare la più perfetta con la sua gonna rossa a sbuffo e la collana di perle. Ascoltava la signora Maria facendo di sì con la testa, poi sorrideva morbida per farle capire che era buona e le toccava piano la spalla, mentre la signora Maria tirava su col naso.

Io ero così contenta di aver conosciuto i crauti che sono una pietanza che mangiano i grandi e mi sembrava che io e lui stavamo per diventare gemelli che non si separano più. Mi piaceva l’odore di quella casa che sapeva di margarina, perché il suo papà dietro la casa produceva la margarina, non adesso che era andato via e l’impianto era tutto fermo, ma l’odore si sentiva forte e a me piaceva tanto perché era quello di casa sua. Ma anche i bambini a volte sono strani o forse solo le bambine, io mentre mangiavamo mi sentivo grandissima, avrei voluto fare con lui le prove che facevo a casa, quando baciavo il cuscino. Non lo facevo apposta, ma ero come il latte quando bolle sotto la pellicola di panna e spinge per uscire tutto fuori dal pentolino. Lo guardavo dritto per fargli capire l’amore, lui invece faceva le smorfie per far ridere le mamme. La sua di mamma con le braccia strette sul petto faceva finta di ridere, poi abbassava gli occhi e si passava le mani arrossate ai lati del suo vestito scolorito. Nella mia testa c’era una nuvoletta di pensieri che non riuscivo a spostare, i maschi forse non amano baciare e per questo scappano lontano. Poi le mamme volevano anche loro sedersi al tavolino piccolo della cucina per bersi il loro caffè e ci mandarono via. Allora per la prima volta, quando non ci poteva vedere nessuno, lui mi toccò la mano, me la prese e io mi sentivo la corrente elettrica dentro le vene, come tanti spilli leggeri che fanno crescere il calore e poi mi era spuntato un sorriso bello grande che fa capire tutto, ma si vedeva che lui non era ancora pronto. Lasciò subito la mia mano e salì le scale a due a due per farmi vedere come era veloce anche se io lo sapevo già. Aveva aperto la porta della camera di sua sorella, poi quella dell’altra sorella, a me non piaceva quel momento. Lui forse si era accorto che mi stavo intristendo e allora entrò nella sua di camera. C’erano due lettini piccoli uno vicino all’altro, uniti, (come facevo io con mia sorella quando lei aveva paura degli spiriti), con i copriletti a fiori uguali alle pareti. Erano dei fiori non troppo da femmine e per me erano bellissimi, proprio quelli che avrei desiderato anch’io, davanti ai lettini c’era un armadio che mi piaceva molto perché era di legno chiaro con uno specchio cosi grande che la stanza sembrava prolungarsi dall’altra parte e invece un altro spazio non c’era. Lui mi disse di togliermi le scarpe. Ci avevo messo un po’ a togliermi le scarpe perché di natura non sono molto brava a slacciare i bottoncini. Poi lui a voce più bassa mi disse di togliere anche le calze. Lo guardai con lo stupore perché mi sembrava una cosa importante tra noi. Le calze erano sudate e si erano appiccicate alle gambe ed essendo traforate avevano lasciato tanti disegni sulla pelle, ma togliendole mi sentivo il sollievo e il fresco che andava dai piedi fino alla pancia.

Lui mi disse vieni sul letto.

Era in piedi sul letto e cominciò a saltare io cominciai a saltare ed era bello perché ci potevamo vedere dentro lo specchio e lui mi toccava la mano, mentre andava su e giù, e facevamo a gara a chi saltava più in alto e ridevamo e io mi sentivo che forse quello era il momento in cui era iniziato l’amore.

Passò una stagione, avevo tagliato i capelli e l’amore mi usciva dappertutto. Proprio la domenica che nevicò il suo papà era tornato a casa e per fare festa ci eravamo incontrati. Suo papà si chiamava Mario. Forse i suoi genitori avevano litigato per via dello stesso nome, pensavo che se maschio e femmina hanno lo stesso nome si arrabbiano di più degli altri con i nomi diversi. Il signor Mario era molto alto e tanto simpatico, anche se aveva il naso lungo che faceva un’ombra scura sopra la bocca piccola. Quella domenica pomeriggio era stata brutta perché avevano portato anche quella rompiscatole di mia sorella che di amore non capiva proprio niente e perché non ci avevano neanche messo vicini, io volevo la Coca Cola invece Costanzo era diverso da me e prendeva l’aranciata, come a farlo apposta. Io ero triste perché i papà e le mamme non ci capivano, parlavano come se fossero soli. Per loro eravamo come animaletti stupidi che devono stare legati alla catena per non creare guai, io per questo facevo i dispetti, mettevo le dita nel naso, facevo rumore con la cannuccia, non ascoltavo la mamma che a casa per colpa mia aveva litigato col papà. Prima di andare via i grandi ci avevano dato la bella notizia che quando sarebbe arrivata l’estate saremmo andati al mare tutti insieme. La mia mamma si era chinata su di me come se non fossi la sua bambina e sorrideva con una faccia brutta che non sembrava più la sua e aveva detto sei contenta che starai al mare con Costanzo e poi si era messa a ridere con gli altri, mentre Costanzo faceva finta di niente con gli occhi bassi sull’aranciata. Le mie guance erano diventate rosse, ero arrabbiata che proprio lei osava prendermi in giro. L’amore non lo sentivo più, avevo la vergogna di essere piccola e avrei voluto nascere senza i genitori.

Durante il freddo la nonna cucì per me e mia sorella molti vestitini e qualche costume, ma era proprio fissata col prendere il sole sulla schiena, così niente parte sopra del due pezzi.

Arrivò finalmente il primo giorno d’estate, il papà aveva sistemato nella macchina prima le valigie, poi me e mia sorella ancora addormentate. Partimmo che era ancora buio, ci erano volute molte ore, poi finalmente vedevamo dappertutto il chiaro del mare che diventava cielo.

Andammo ad abitare in due case vicine sulla spiaggia con un unico cortile, ma noi eravamo arrivati per primi. Quando dopo tanti giorni arrivò la signora Maria, aveva sempre il mal di testa, teneva le finestre chiuse e non veniva mai al mare, mentre il papà di Costanzo fumava molto nel cortile, seduto su una roccia e si capiva che aveva tante preoccupazioni perché guardava la terra e non rideva mai. Non gridavano loro due, non come il papà e la mamma, lui diceva alla signora Maria parole brevi a bassa voce. A volte, quando lei usciva che suo marito non c’era, mi sembrava di vedere le lacrime ferme nei suoi occhi. Ma lei diceva che era colpa del raffreddore. Era tanto bianca, non come mia mamma che era già molto scura. Forse era triste perché Costanzo era ancora dai nonni e anche a me dispiaceva tanto. Io dormivo in una stanza piccola con i letti a castello insieme a mia sorella che dopo due giorni si ammalò di tonsillite e le venne pure la febbre alta, era anche venuto un dottore del posto, così anch’io ogni mattina dovevo per forza andare con lei e la mamma nella pineta, come le aveva ordinato il dottore. Al mare di pomeriggio tutti dormivano sotto gli ombrelloni, io dovevo aspettare l’agonia delle quattro per fare il bagno.

Dopo sette giorni arrivò Costanzo, ma insieme a lui arrivò qualcosa di molto brutto, come una disgrazia che non avrei mai voluto che arrivasse. Si chiamava Andreino.

Era un bambino di due anni più grande di noi, andava per i dieci. Anche se non era proprio brutto, faceva un po’ paura perché rideva troppo ad alta voce, ruttava, faceva sempre scherzi stupidi e cosa più brutta di tutte non amava le bambine. Costanzo aveva l’armonia, io lo amavo per quello, ma quando c’era Andreino diventava come un palloncino che si fa piccolo quando scompare nel cielo e ti dispiace un sacco.

Un pomeriggio, quando l’aria era più bollente e tutti dormivano, stavo seduta sulla sabbia calda dietro l’ombrellone dei genitori.

La signora Maria che era uscita per la prima volta dalla casa, russava forte con la testa spinta indietro e le spalline del costume tutte giù e le gambe allargate. La signora Maria aveva dei brutti peli neri che le uscivano dal costume, uguali a quelli dritti che aveva sotto le ascelle. Glielo avrei voluto dire che poi suo marito la voleva ammazzare, erano molto brutti, ma avevo paura di farle dispiacere, io sapevo che anche lei era triste come me e le lacrime si sa, in questi casi sono già pronte dentro agli occhi. Mentre pensavo questo e facevo un disegno sulla sabbia con le conchiglie che aveva trovato mio papà la mattina, arrivarono Costanzo e Andreino. Scivolarono sulla sabbia con le ginocchia e si misero tutti e due di fronte a me. Andreino stava in ginocchio e mi guardava come fossi un pupazzo in vetrina. Costanzo stava sdraiato sul fianco, aveva la pelle coperta di peli biondi luminosi, lunghi sulle gambe e sulle braccia e sottili sulla pelle abbronzata attorno all’ombelico. Teneva in bocca un filo di paglia chiara come i suoi capelli, che erano quasi bianchi vicino alla fronte, fissava la sabbia e non disse una parola quando Andreino si era messo a criticare i miei capelli corti e il mio costume senza la parte sopra. Con la faccia crudele continuava a chiedermi se ero sicura di essere una femmina. Io non gli rispondevo nemmeno, ma guardavo Costanzo per vedere se poteva fermare la cattiveria del suo amico. Lui non faceva niente, l’unica volta che alzò gli occhi per guardarmi, mi sembrava che volesse dirmi che non poteva essere diverso, ma io penso che non voleva fare vedere a quel bambino che sentiva l’amore. Se ne andarono senza neanche salutarmi.

Il bagno nel mare lo facevo sempre da sola con la guardia di mio papà, era una vacanza non tanto allegra, nelle fotografie di quella volta si vede la mia faccia con una brutta espressione, venivo come stritolata tra i genitori molto alti, che ridevano e pensavano solo al loro bene, con mia sorella in braccio bianca cadaverica che non voleva proprio guarire. Una foto c’era con me e Costanzo sul moscone vicini vicini. Per fortuna avevo il prendisole bianco e rosso a pezzo intero, sembravo una ballerina e in quella foto lui sorride contento. Ma quello che avevo capito duramente, che comunque un po’ di mal di gola mi era venuto, era che l’amore non era come lo avevo nei sogni e poi che i bambini cattivi esistono.

In quinta avevamo la stessa classe, avevamo lo stesso banco, si andava a scuola un po’ di mattina le femmine, e un po’ di pomeriggio i maschi e poi si cambiava. Gli avevo lasciato sotto il banco un bigliettino con scritto se ci vedevamo dietro la scuola dove le bambine un po’ facili incontravano i ragazzi per baciarsi e fumare le sigarette, ma lui non mi rispose mai. Io avrei voluto provare ad essere come quelle facili, almeno una volta. Ero così offesa che quasi mi sembrava di non sentire più niente per lui. Il giorno della festa dell’albero, con tutti a scuola, maschi e femmine contemporaneamente, nel corridoio c’era un ragazzino ripetente, molto grosso e cattivo che urlava come un matto e voleva picchiare tutti, anche le femmine. Costanzo senza paura si era avvicinato a lui, a voce alta come fosse già grande, gli aveva detto di stare calmo e quello si era messo buono, forse perché Costanzo aveva la fama di essere il più bravo di tutti in aritmetica. Ero arrossita da paura e con il rossore sulle guance avevo sentito di nuovo l’amore che ritornava. Ma lo avevo fermato a metà, un nodo che si ferma in gola e non scende giù, avevo deciso che era finita, questa storia difficile rimaneva nel mio cuore con il dispiacere di non esserci baciati mai neanche abbracciati almeno una volta, quella passione mi bruciava le tonsille, ma non era altro che un vasetto di marmellata buona che stava andando a male, dimenticato su uno scaffale pieno di polvere.

E così alle medie quando ero stata al mare avevo trovato un ragazzo biondo che si chiamava Luca che aveva la mia età, sui tredici e un altro più grande che si chiamava Giorgio. Appena riuscivo, di pomeriggio scappavo da mio padre, che era molto severo, e andavo ad incontrare Luca alle dune dove non ci vedeva nessuno. E la sera, con la scusa di comprare il latte per il giorno dopo, correvo alla discoteca sull’acqua e per dieci minuti vedevo Giorgio e sentivo il tumulto dentro la pancia per la musica che rimbombava dentro di me e per gli uomini più grandi che mi guardavano in un modo che mi faceva venire i brividi, poi correvo a casa nel letto ad ascoltare quei brividi al buio.

Per il liceo mi mandarono a studiare in un’altra città, dove c’erano scuole più grandi, tornavo a casa solo d’estate.

Costanzo si era fidanzato con una ragazzina non tanto bella,  suo padre era morto e sua madre era ringiovanita. Aveva continuato a studiare e non aveva tralasciato nemmeno il lavoro del papà. Una volta, d’estate, ormai sui sedici, avevo indossato una gonna cortissima, come quella delle pattinatrici, dal bel colore turchese. Per andare a trovare mia nonna dovevo passare davanti al bar sport dove si riunivano tutti i ragazzi del paese. Se ne stavano tutti fuori per fare commenti volgari sulle donne che passavano davanti a loro. Io lo sapevo e prima di uscire avevo fatto le prove davanti allo specchio. Con il coraggio camminavo davanti al bar sport senza guardare. Avevo sentito dei fischi come quelli dei muratori quando passa una donna, poi qualcuno aveva chiamato Marta! Era Costanzo, uguale a come era sempre stato, solo più grande. Attraversò la strada e venne a prendermi per mano e con una dolcezza che non ci potevo credere mi portò dentro al bar sport e disse ad alcuni ragazzi che ero la sua più grande amica Marta e nei suoi occhi verdi che brillavano avevo visto che provava vera ammirazione per me e per noi due. Avevo capito che mi aveva amato, ma che prima di me aveva compreso che anche se c’è l’amore, non è detto che si vada nello stesso posto pensando gli stessi pensieri.

 

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