La vita inedita di una scrittrice #39
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La vita inedita di una scrittrice #39

Ho cominciato a lavorare giovanissima in una camiceria, e naturalmente sottopagata. Ora la chiusura della ditta per me e le altre compagne significa un passo indietro, tornare al lavoro sottopagato, al lavoro nero. E per tutte noi, che siamo già passate per quello sfruttamento, che abbiamo fatto tante battaglie per combatterlo, non è accettabile. In questi anni la donna è cambiata, ha capito che non può sempre subire. Vuole essere, anzi lo sta diventando, protagonista. E difatti noi nella cooperativa non vediamo un comodo rifugio, per rinviare lo spettro della disoccupazione. Noi crediamo nella cooperazione. Il mondo imprenditoriale ci guarda ancora con un po’ di diffidenza; ci vedono tutte ragazze e perciò più in basso…E in effetti come donne abbiamo delle difficoltà maggiori. E questi condizionamenti sono effettivamente degli ostacoli. A me è capitato varie volte di dover rinunciare a congressi sindacali, e tutto perché la sera dovevo tornare a casa.”

Chi scrive non è Louisa May Alcott. Chi scrive è Elena Cascella, mia madre. Qualche settimana fa ho trovato un numero del 1976 della rivista Annabella dove la giornalista, Cristiana Di San Marzano, intervistava alcune donne meridionali che si battevano per essere pagate. Per i soldi. Fa impressione. Mia madre e la Alcott sullo stesso piano per mancanza di deferenza e per diretta intercessione di ricevere ciò che spetta. Tra loro scorrono cento anni e passa di Storia. E io? E oggi?

Sono circondata da donne che non sanno chiedere i soldi per il loro lavoro. “Ma ti sei fatta pagare?” “No. “E perchè no?” Silenzio. In quel silenzio c’è la vergogna, dispiace dirlo, di essere dentro un sistema in cui se le donne parlano di soldi, non sta bene. Sono volgari. Non c’è niente di rivoluzionario nella scelta di mantenersi da sole. La disgrazia è doverne parlare ancora.

“Sono convinta che per la stessa quantità di lavoro, svolta altrettanto bene, sia doveroso un uguale salario. Sei d’accordo con me, vero? In futuro auspico che le donne possano fare quel che vogliono, che gli uomini la piantino di metter loro i bastoni tra le ruote, e soprattutto che la partita si giochi ad armi pari – è una semplice questione di giustizia, e questo è quanto. Non ne posso più di sentir parlare di «sfera femminile», né dai nostri illuminati (?) legislatori seduti sotto la cupola dell’assemblea di Stato, né tantomeno dai predicatori sui loro pulpiti. Sono stufa, dopo tutti questi anni, di sorbirmi fandonie su querce vigorose e fiorellini di campo, la cavalleria maschile e il dovere di proteggerci. Lasciamo la donna libera di scoprire i propri limiti.” Lo scriveva Louisa May Alcott e noi siamo ancora qui che dobbiamo ancora imparare a fare i conti, senza dover rimediare per forza un matrimonio che ci renda più sicure di noi.

La verità è che se Jo March avesse sposato Laurie, rinunciando alla sua vocazione e dunque alla sua autonomia, “Piccole donne” lo avrebbe scritto Amy. E noi ci saremmo annoiate moltissimo. Ma questo Louisa May Alcott non lo ha permesso e gliene saremo grate per sempre.

(Questo è uno stralcio del mio pezzo, pubblicato su ThePeriod. L’intero racconto è disponibile iscrivendosi alla newsletter qui. )

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