“La telefonata” di Alida Melacarne #dopolavoroletterario n. 51
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“La telefonata” di Alida Melacarne #dopolavoroletterario n. 51

Ho conosciuto Alida tramite una telefonata, che mi fece lei quasi un anno fa per chiedere informazioni su “Una storia tutta per sé“, dove poi si iscrisse dimostrando di essere capace di mettersi in gioco ( e a nudo) anche quando si trattava di scrivere i soliti ostinati esercizi di stile che somministro ai miei malcapitati corsisti con vocazione autobiografica. Poi l’ho rivista, Alida, durante la lezione che ho tenuto a dicembre per LaContent dove dimostravo, passando attraverso altri mal digeribili  esercizi, che gira e rigira le storie vengono da noi, dalla parte che scegliamo di mettere via. Mesi dopo, per la raccolta di storie (e anche di fondi) “Come l’aria”, Alida ha scritto questo pezzetto di storia che racchiude e restituisce a tutti molto bene il suo percorso, merita di essere condiviso.

La telefonata

di Alida Melacarne

Da quando è iniziata la quarantena, ogni giorno aspetto una telefonata, una specifica telefonata.
Solitamente arriva a metà mattina.
Quando arriva so che dall’altra parte del telefono c’è un uomo muscoloso.
Che è muscoloso lo so perché ho spiato la sua foto profilo su WhatsApp.
È una foto che tradisce forse un carattere vanesio, ma allo stesso tempo trasmette forza.
E ci mancherebbe, con tutti quei muscoli.
Mi dice dove devo andare, con la sua voce profonda.
E io ci vado.
Si raccomanda sempre che io prenda tutte le precauzioni, mascherina e guanti, che segua perfettamente le procedure, “non avvicinarti, mantieni la distanza”.
E io vado.
Vado a consegnare la spesa e le medicine a famiglie povere, a persone sole, a padri di famiglia, anziani, immigrati, a gente che ha poco, pochissimo, per conto dell’assessorato al Welfare della mia città.
Siamo in tanti, siamo una rete.
Siamo circa 400 volontari; poi ci sono aziende dell’agroalimentare, panifici, pasticcerie e supermercati che si occupano delle donazioni, oltre alle offerte dei privati cittadini.

 

Dopo la telefonata recupero mascherina e guanti, mi lego i capelli, mi copro bene, mi metto in macchina, passo dalla sede dell’assessorato, saluti rapidi con gli impiegati e i vigili urbani, prendo i sacchetti della spesa già pronti da consegnare e via con la mia panda tra le strade deserte.
Sto scoprendo angoli sconosciuti della mia città.
Qualche giorno fa ho scoperto che nell’estrema periferia esiste un piccolissimo quartiere completamente immerso nella campagna; il navigatore non lo traccia nemmeno.
Mi sono persa e non c’era nessuno a cui chiedere indicazioni e così mi sono messa a girare e a cercare.
Quanta campagna c’era intorno alle case un po’ malandate; c’erano mandorli e papaveri.
Incredibile, a pochi chilometri da casa mia.
Il momento della consegna della spesa o delle medicine è sempre bellissimo.
Con le bocche coperte dalle mascherine non solo si parla male e il suono della voce rimane intrappolato nel tessuto, ma anche tutta la parte del non verbale del volto svanisce.
E allora, se sto sorridendo, devo farlo capire principalmente dagli occhi e dallo sguardo.
Un padre di famiglia mi ha accolto nel cortile di casa sua con gli occhi bassi, era quasi imbarazzato, ma io, con i miei, di occhi, gli ho sorriso, l’ho guardato dritto; io che di solito gli occhi li costringo nelle zone periferiche dei volti che incontro.
Mi ha sorriso pure lui con uno sguardo disteso.
Oppure la signora a cui sono andata a consegnare le medicine.
Mi ha accolta sulla soglia di casa, si è seduta su una sedia, avendo problemi di deambulazione; io ero sul pianerottolo, a distanza di sicurezza, le ho allungato il sacchetto pieno di medicine. Mi ha guardata come se fossi un miracolo, con gli occhi quasi increduli.
Nessuno mi lascia andare via senza avermi prima congedata con un: «Signorina, che Dio la benedica».

Terminata la consegna, grata e commossa, piena di benedizioni e di occhi che mi hanno sorriso, me ne torno a casa; a casa dove tornerò a pensare alle cose che mi mancano e ad aspettare la telefonata dell’uomo muscoloso.

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