LA SPOSA VOLANTE DI CAROLA MININCLERI COLUSSI – #dopolavoroletterario n. 40
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LA SPOSA VOLANTE DI CAROLA MININCLERI COLUSSI – #dopolavoroletterario n. 40

Carola è fluviale. Quando parla, quando pensa, quando scrive. La sua capacità di far scorrere i pensieri dentro un letto di un fiume in piena è stata la croce e la delizia del nostro percorso di editing. All’inizio, Agata era la protagonista di un romanzo dal titolo “Lise”, un altro personaggio della storia che non è la protagonista. Adesso è “La sposa volante”, il nuovo titolo le si addice come la voce con cui racconta. A volte un percorso di editing può essere il modo per mettere al centro chi altrimenti sarebbe restato ai margini, autrice compresa.  Finalmente Agata ha una voce obliqua, l’argine del fiume creativo da cui è nata. Questa è la storia di una donna che ha le ali ma ha paura di volare, una donna appassionata delle donne lontane e vicine della sua vita. Questo è l’incipit del romanzo, la foto è dell’autrice. Buona lettura a voi e buon volo ad Agata!

LA SPOSA VOLANTE

DI CAROLA MININCLERI COLUSSI

PARTE I, VITA IN ISOLA

1. LA MANU DI LU SIGNURI

Sono nata ai piedi di un vulcano, a Ginostra, il 17 marzo 1974.

Porto il nome della nave della Marina Militare Italiana il cui medico, quella notte, mi ha salvata dalla morte, mi chiamo Agata.

Per mia madre, Pasqualina Vitale, invece, non c’è stato nulla da fare. M’ha partorita e se n’è andata via, come il vento di Punta Corvo prima che cala il sole. Però quello poi torna. Mia madre no.

Mio padre, Salvatore Amato, insisteva a dire che ero stata tanto desiderata. Nonna Assunta raccontava spesso che, ancora quando c’avevo un mese, e mi cambiava i vestiti, mi veniva via anche la pelle, come vengono via le squame a u pisci mirluzzu quando lo squami.

Dopo che le si erano rotte le acque, Pasqualina si rifiutava di andare a partorirmi all’ospedale, come Caterina, l’ostetrica del paese, e ‘u medicu di Lipari le avevano raccomandato – che in gravidanza c’aveva avuto più di qualche emorragia, perché nonna mia, sua madre, non era ancora ritornata a casa – che da sempre abitavano congiuntamente, loro due, con papà e pure uno dei due fratelli di papà, il più piccolo, zio Antonio, perché di occasioni a Ginostra non ce n’erano tante, e di soldi ancora meno, e perciò si viveva tutti insieme, o quasi.

Per nessun motivo voleva dare alla luce ‘a creatura senza che lei fosse presente. Non importava che il marito, mio padre, capitano di un piccolo peschereccio, fosse corso immediatamente a casa per assisterla ed essere presente al lieto evento: ci doveva stare mammuzza, accanto a lei.

Pasqualina, amuninni, u ventu a cuminzat’a susirisi, e cu lu mari cu la raggia a Milazzu arrivamo dumani, le aveva detto Salvatore. Ma Pasqualina tratteneva e tratteneva, finché madre natura le aveva mandato una doglia tanto forte che papà a uscire ce l’aveva obbligata. Proprio in quel momento nonna era rientrata a casa e mamma, con un altro sforzo, le aveva dato il tempo di cambiarsi d’abito. Assunta era andata al centro a comprare la pasta di mandorle per fare i biscotti, che se belli notizi fossero arrivate, cioè – anche se non lo diceva apertamente – se fosse nato un maschio, e i parenti fossero venuti a festeggiarlo, almeno avevano qualche cosa da offrire. Uscita dalla bottega, un gabbiano le aveva fatto uno schifiu sulla casacca di cotone bianco semi-nuova, e lei davanti a ‘u medicu non voleva fare brutte figure con ‘a cammisetta sporca.

Intanto s’era fatto buio, e siccome era marzo e il tempo non era ancora volto a buono e stabile, e il mare si era increspato parecchio e arrivare all’ospedale, a Milazzo, era oramai impossibile, a Salvatore non rimaneva che chiedere aiuto al medico dell’unità di addestramento della Marina, ormeggiata due miglia al largo di Ginostra, il dottor Magnifico, un uomo dall’aspetto gentile, e umile, nonostante il suo cognome, con cui aveva scambiato qualche parola, quella mattina, al porto di Stromboli, e proprio sul vento e sul tempo che veniva a peggiorare.

Era corso alla sua barca e lo aveva contattato con gli strumenti di bordo. Il medico si era precipitato con una scialuppa verso il porto, ma le onde erano così alte che non gli permettevano l’ingresso, così Salvatore era uscito a prenderlo con la barchetta in legno che usavano per andare a vendere il pesce. Con l’aiuto di San Bartolomeo, il patrono dei pescatori, per papà, ma zio Antonio diceva per la sua grande esperienza del mare, le due barche erano riuscite a entrare, l’una dopo l’altra nel Pirtuso, il porto di Ginostra.

A causa dell’eccessivo prosciugamento dell’acqua, la nascita era stata difficile, e quando finalmente ero uscita, mamma non aveva nemmeno la forza di guardare se fossi maschio o femmina: dopo pochi minuti si era addormentata e non si era risvegliata mai più. Il dottore mi aveva fatto una flebo e all’alba se n’era andato sulla scialuppa, scivolando sul mare ritornato di pace e di un velluto indifferente.

A papà era arrivato un telegramma di condoglianze che, controvoglia, ma obbligato dall’onore, mi avrebbe consegnato al mio tredicesimo compleanno, il giorno dopo m’erano venute le prime mestruazioni:

– Condoglianze. STOP – Non dimenticherò questa notte di vita e di morte. STOP – E questo porto di mare, STOP – tra due pareti di scogli, STOP – due metri e mezzo di larghezza. STOP – Quando Agata sarà grande, le dica che ho fatto tutto ciò che potevo in quelle condizioni. STOP

Firmato, Pier Luigi Magnifico

Rimasto vedovo, papà mi aveva voluta chiamare come la nave da cui era arrivata la manu di lu Signuri, che s’era portata via la mogghie, diceva a tutti, ma gli aveva lasciato la figghia.

Fin da bambina, i segni di quell’arrivo inaspettatamente burrascoso mi bruciavano dentro come brucia la lava nella pancia dello Stromboli, sputando regolarmente pietre incandescenti pure da diecimila metri sotto terra, dalle viscere, che guai se ci vai troppo vicino, e guai se ti colpiscono in testa. Mi sentivo segretamente responsabile della morte di mia madre, e al contempo non abbastanza desiderata, dato che, ad accogliermi, non ce l’avevo trovata. Mi ero presto convinta che nascere non fosse affatto abbastanza per ottenere il diritto alla vita e alla felicità. In fondo uno vorrebbe solo essere il benvenuto.

Bon tempu e malu tempu, non dura tuttu ‘u tempu. Nonostante tutto, crescevo bene e crescevo pure tanto. Sono sempre stata alta, per la mia età: a tredici anni ero più alta di nonna, più alta di papà e anche della maggior parte degli abitanti di Ginostra e, da un certo punto dell’adolescenza, più alta persino di zio, che già lo consideravano un bel pezzo d’uomo. Ero più alta di Vita, che era poco più grande della mia età, la figlia di zio Vittorio, il fratello maggiore di papà, e più alta di Sergino, il figlio di Cettina, la vicina che era rimasta vedova a trent’anni, che era proprio piccolo, e che mi chiamava: cocuzza longa senza semenza. Non mi piaceva essere così alta, anche se nonna mi ribadiva che a lunghezza era mezza bidizza, così come non mi piaceva tanto essere femmina, specie quando papà mi diceva che non mi potevo arrampicare sugli alberi come faceva Sergino, che certe cose le femmine non le dovevano fare. E così m’ero abituata, senza neanche saperlo, a incurvare un po’ le spalle, che non si vedeva che ero alta e neppure tanto che ero femmina, e allora Sergino mi prendeva in giro perché ero spilungona e pure ‘ngobbita: scàcciti juncu ca passa la china!, mi gridava ogni volta che mi vedeva.

Sin da piccola ero rimasta inquieta, si può dire disorientata come una bussola in una tempesta. Mi svegliavo urlando, la notte, in preda agli incubi, oppure mi alzavo, sonnambula e chiacchierona. Era zio che mi sentiva e mi riaccompagnava a dormire. Mi perdevo tra le stanze della casa, non mi ricordavo mai perché mi ci infilavo, cambiavo idea continuamente sulle cose che avrei fatto durante la giornata, e spesso non facevo niente. E se facevo, non completavo quello che cominciavo.

Con papà non andavo d’accordo. Più di tutto ricordo il suo indice secco e sempre abbronzato, anche d’inverno, che mi faceva di no, senza aggiungere altro, quando facevo qualche domanda su mia madre. Mi aveva detto il minimo indispensabile, ed evitava costantemente di rispondermi. Pensava che, se ne udivo di meno, soffrivo di meno, e aveva imposto a tutti, a nonna, agli zii e ai vicini di fare lo stesso. Quel muro di silenzio attorno alla figura che più di tutte m’importava conoscere, mi faceva sentire in galera. Per questo nonna, di tanto in tanto trasgrediva a quella regola. Quando papà non mi considerava mi scatenava una rabbia che bollivo, e più io bollivo e più lui era tiepido, un sole tiepido che versava i suoi raggi sulla lapide di mamma più che sul seme della mia speranza e dei miei bisogni.

Non mi sentivo tanto meglio con nonna Assunta, che era una donna dell’altro secolo, e parlava poco, più che altro fissandoti con le pupille nere nere che teneva, ma mi piaceva che m’insegnava a leggere i segni, diceva, con cui il Signore ci parla, i disegni del vento sul mare, le forme delle nuvole, la comparsa improvvisa di un insetto, e con me era buona, mi cucinava, mi stirava e ogni tanto mi dava pure una carezza. Mi preparava di tutto, ‘a caponata, alalunga‘ca cipudda, u sugu di cernia, ‘u pane cunzato, di tutto tranne i biscotti. Dalla morte di sua figlia, nonna di biscotti non ne aveva fatti più, manco uno, e se le chiedevo di farmeli mi diceva di no, che teneva le mani occupate dal rosario.

A Ginostra, a quei tempi, non ci stava l’elettricità, se non prodotta dai generatori, e ogni famiglia teneva qualche lampada a olio per illuminarsi la vita della sera. Avevamo la tv, ma prendeva solo i telegiornali, perché papà s’era ingegnato collegando ‘u filu a un cucchiaino che prendeva il ripetitore in Calabria: non gli piaceva sentirsi completamente fuori dal mondo, e voleva interrompere i silenzi pesanti o la cantilena delle preghiere di nonna, che diceva che gli davano di matto. Liti, telegiornali e Ave Maria. Le tre cose che più alimentavano il peso invisibile sulle mie spalle, le tre ancelle nere del Dio dell’Irreparabile a cui niente più di una mente siciliana si vota, più spesso come sconfitta che come resa.

Un giorno di un marzo, prima dell’alba, che papà andava a lavoro molto presto e prima passava sempre dal cimitero, lui e nonna si erano chiusi in cucina. Io mi ero alzata dal letto e avevo appoggiato alla porta le orecchie per sentire che cosa si dicevano: stavano parlando di mia madre, litigando a bassa voce. A nonna le era salita la morsa del dolore, e aveva accusato papà di non essere intervenuto in tempo per salvare mia madre dalla morte. Papà diceva di dargli pure la colpa di tutto, ma che tanto, qualsiasi parola avesse detto, due cose non sarebbero mai accadute: Pasqualina non ce l’avrebbe ridata indietro nessuno, e lei, nonna Assunta, non sarebbe stata più innocente di lui agli occhi della storia. È così, per le loro reciproche accuse, che ho conosciuto per filo e per segno gli eventi di quella tragica notte, la memoria della quale ricorre insieme al mio compleanno, e che mi sono resa conto, per la prima volta, che anche lui era furibondo per la morte di mamma. Poi erano usciti dalla cucina e mi avevano vista lì, paralizzata da quella nuova cognizione. Nonna m’aveva chiesto che ci facevo là, e m’era venuto da risponderle che ci avevo paura che volevano mandarmi via. Cu ti voli beni ‘n casa ti teni, m’aveva risposto, e aveva abbozzato un sorriso, mentre papà se n’era andato a travagghiare e, quando la sera era rientrato, per loro tutto era tornato normale, come prima. Odiavo quella loro impostura, e a volte glielo gridavo addosso. Quando mi arrabbiavo forte parlavo solo in siciliano, la lingua del mio vulcano. Papà si lamentava delle mie sfuriate e delle mie puntigliose osservazioni, ancora a nasciri e si chiama Cola!, si a ogni cani c’abbaia ci tiri `na petra non t`arrestunu vrazza, mi ripeteva, prima di parlari hai a masticarli, li paroli!, e mi chiamava ‘ncazzusa, non mi capiva, anche s’era ‘ncazzusu pure lui, invece nonna mi sedeva accanto a lei e, cercando di calmarmi, mi porgeva un tamburello da cucire. Mi chiedeva di ricamarci sopra l’immagine del Timpone, la parte alta del borgo di Ginostra, quella dove abitavamo noi, che poi l’andava a vendere ai pochi turisti in piazzetta dei Caduti.

Non sacciu ricamarlo, mi posso equivocare!

Cu `un fa nenti `un sbaglia nenti.

Non ne ho mai finito uno. Per disegnare il posto dove sei, devi andarlo a guardare da fuori, da un altro punto di vista, e io voglia di uscire non sempre ne tenevo. E poi sentivo che arrivare alla fine delle cose non dava garanzia alcuna di soddisfazione, non nel mio mondo di allora, fatto piuttosto di vuoti da riempire, che di azioni da concludere. Le giornate sfitte di un mondo antico e poco popolato, soprattutto di bambini con cui giocare, che c’era solo mia cugina Vita, che però viveva a Stromboli, dall’altro lato dell’isola, e Sergino, che sua madre gli faceva fare quello che voleva, e che era manesco e non ce lo avevo in simpatia, ed era il mio unico compagno di scuola, una scuola con una classe e una maestra vecchia per due alunni soltanto. E il vuoto dei ricordi che non tenevo, quelli di mia madre, che non avevo mai conosciuto, e che faceva un rumore sordomuto.

L’unica persona con cui mi trovavo a mio agio era zio Antonio, che con mio papà c’aveva quasi diec’anni di differenza: un uomo buono, sensibile, intelligente, anche se non era studiato, che mi voleva un bene dell’anima, mi trattava a metà tra una nipote, una sorella e una figlia, e capiva la mia irrequietezza, perché anche lui teneva la sua, e non faceva segreto che aveva voglia di andarsene via dalla Sicilia, da questa terra così piena di contraddizione, dove la natura sapeva esplodere nella gioia della bellezza e della fioritura mentre le persone, il più delle volte, restavano secche come radici di ginestra strappate. E ne emigrò, infatti: a tredici anni tenevo già lo zio d’America. Voleva fare tanti piccioli per portarci tutti via da Ginostra, diceva che era pericolosa, che Iddu, u vulcanu, u Strognuoli, aveva parlato già tante volte e avrebbe parlato ancora. Era sicuro che a Nuova York ce l’avrebbe fatta, ripeteva sempre che se t’impegni puoi riuscire in tutto. Papà diceva che noi Ginostra non l’avremmo lasciata mai, che l’America era troppo lontana e troppo insicura, che cu lassa a vecchia pi la nova peggio si trova, che zio era troppu ambiziosu, che era megghiu l’ovu oggi ca a iaddina dumani, che era meglio essere poveri qui che ricchi e soli dall’altra parte del mondo, che unu sulu non è bonu mancu ‘mparadisu e così via. Pensava che suo fratello intendesse riscattare il ricordo della nonna, la madre della loro madre, che in casa si tramandava che l’avevano vista morire magra magra, perché dopo l’eruzione del 1930, se non stavi nell’esodo, stavi nella carestia. Zittuti figghiu ca ora ti pigghiu, ti rugnu a nenné ca pappa nun ci n’è, cantavano ancora le donne della famiglia come ninna nanna ai bambini, e quel ritornello gli era impresso dentro e gli dava la direzione, come il timone alla barca di papà.

Zio Antonio mi scriveva sempre, soprattutto mi scriveva quanti piccioli prendeva a settimana, ma anche quanto costavano le cose, un filone di pane cinquanta cents, i pomodori trentanove cents per libbra, la benzina un dollaro e venti al gallone, che faceva come quasi quattro litri dei nostri, una macchina nuova settemila dollari, dieci dollari i jeans che si era comperato per lavorare come lavapiatti da ‘U veduvu, il ristorante italiano di Filippo, un amico milazzese di zio Vittorio emigrato a Nuova York dieci anni prima con i tre figli, dopo che, anche lui, aveva perso la moglie. E le sigarette, mi scriveva quanto pagava le sigarette, sessanta cents, perché aveva cambiato vita e continente, ma non aveva smesso di fumare, tutto il giorno, come la bocca del nostro vulcano.

Stilava i suoi pensieri in quella lingua estranea – con qualche parola in siciliano, quando non sapeva ancora come si diceva qualcosa – perché così, sosteneva, mentre lo imparava lui, lo imparavo pure io, che un giorno potevo andarlo a trovare e fare amicizia con la gente del posto, e che quando saremmo stati di nuovo tutti insieme negli Stati Uniti, mi sarebbe stato facile cominciare una nuova vita. Mi scriveva che quella era una promessa, e noi siciliani le promesse le manteniamo a costo di morire. Quando lo aveva scoperto, papà si era arrabbiato.

Pri tanti cunsigghi la navi si sfasciu ‘mmensa li scogghi!

E per un po’ aveva smesso di consegnarmi le sue lettere.

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