La nostra prima luce di Giovanna Marcianò – #dopolavoroletterario n. 68
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La nostra prima luce di Giovanna Marcianò – #dopolavoroletterario n. 68

Questo racconto è nato da una lettera. Una lettera che è nata da una serie di fotografie che Giovanna ha utilizzato per cominciare a scrivere, partendo da zero. A parte il fatto che doveva essere una lettera. Eravamo all’interno della seconda edizione di Lettere dal Penelope, dove ogni stimolo narrativo proviene dalla lettura e scrittura epistolare. La lettera è uno strumento narrativo formidabile. Può essere solo un mezzo per raccontare un personaggio oppure può diventare il modo migliore per dare una voce alla nostra storia. La nostra prima luce è nato così, pensando a qualcuno a cui raccontare qualcosa. L’ho scelto perché è il primo racconto di Giovanna, in assoluto e dimostra che un percorso guidato anche piccolo apre una voragine di storie; e perchè ha gestito bene sentimento/immagini. Quella luce da cui è partita arriva fino a noi. Buona lettura!

La nostra prima luce

Giovanna Marcianò

In questa città piena di saliscendi percorro la scalinata che mi porta fino a via Aschenez. Mi fermo al lampione spento.  Guardo in su: una luna a metà è ancora in cielo, potrebbe sembrare sera ma sono le 6:30. È un’alba di maggio e ti sto aspettando.  Sono un po’ agitato e quindi mi concentro sul profilo sottile e deciso delle antenne dei palazzi, sul fresco e sull’umido che percepisco sopra i battenti delle finestre ancora chiuse. Il sole è in ritardo ma tutto si sta preparando a cominciare. Mi faccio contagiare da questa energia che mi sveglia.

Saltiamo il martedì per salvarci dal ritmo sempre uguale e assillante degli ultimi giorni di scuola. Ma questa idea di pace è allertata dalla possibilità che qualcuno ci becchi. Dovresti sbrigarti, Maia.  Arrivi con calma come se non ti importasse di essere vista, tant’è che mi chiedo se ho capito male. Io comunque non ho studiato per oggi.  Mi dai un bacio veloce, le nostre labbra si incollano ma solo per cinque secondi.  Sento il tuo corpo attraverso la maglietta e i jeans, vorrei attraversare tutti i tessuti e corrispondere alla tua pelle nuda. Mi porgi un sacchetto con la colazione. Questo è il segnale che mi serve e ci dirigiamo altrove. Arriviamo nel posto suggerito da te. Chi vuoi che ci vada durante la settimana?  Siamo soli nella sala d’esposizione.

Ti seguo: è una zona in cui ti muovi meglio di me.  Ci tieni a farmi notare un quadro di De Chirico. Dici che è importante perché fa parte di una serie di opere legate a luoghi realmente frequentati dall’artista. Milano, Torino, Roma, Firenze, Ferrara, Venezia. No, non c’è Reggio Calabria ma per caso questa piazza d’Italia è qui di fronte a noi e possiamo camminare sulla sua superficie perfetta.  Attraverso le tue parole vedo il verticalismo degli edifici, le loro ombre inevitabili, i colori surreali del cielo. C’è una statua bianca e impassibile al centro del dipinto e una coppia di uomini identici che si guardano in faccia (o un uomo duplicato che guarda se stesso).  Faccio un po’ fatica a seguirti: per te è chiaro che tutto rimandi a un senso lontano ma percepibile. Riesci a cogliere i dettagli più tecnici e a comunicare con l’angoscia dell’artista senza fartene carico.  Ti lamenti della cornice, un rettangolo di legno rivestito in oro, decorato con delle foglie a rilievo. Hai detto che così la fruizione dell’opera non era efficace, io che non so neanche cosa significa il termine immagino che tu voglia dire che c’è una sorta di ostacolo.  Allora per difendermi ti dico che sembri una prof. Hai l’aria offesa, ma sorridi: “Prendila come una ripetizione gratuita in vista degli esami. E comunque io studierò Architettura”.

Anche se ci vediamo da tre mesi e di rado, ogni incontro è un indizio che mi svela che sei più sicura di me.  Ti specchi sul vetro di protezione del quadro: il caschetto un po’ scompigliato, gli occhiali da sole messi come un cerchietto, guardi verso di me e sei entusiasta di spiegarmi tutto quello che sai. Mi avvicino per toccarti le dita e riflettermi anche io.  È quasi l’ora in cui generalmente usciamo da scuola e ti propongo di pranzare insieme. Prendiamo gli involtini primavera e andiamo all’Arena.  Ci sediamo sul punto più in alto dell’anfiteatro, sopportiamo il caldo senza metterci all’ombra.  Il vento soffia forte: si increspano le onde, si muovono i vestiti delle persone sulla passerella che protende sul mare. Siamo chiusi dalla Sicilia in un lago blu. Respiriamo sale ma non ci bruciano le narici.  A tratti sembra che niente mi possa fare male ma lì al centro c’è la statua di Atena che mostra la lancia e lo scudo. A chi? A me, a te, alle storie della gente che vive da sempre qui o che è solo di passaggio? Dovrei armarmi o faccio bene a fuggire? Forse sto pensando troppo e per fortuna mi chiedi di aiutarti a scattare una foto. Vuoi che si veda il biglietto del tuo biscotto della fortuna con lo Stretto dietro.  Posso impegnarmi. Riesco a inquadrare le tue dita sottili che reggono il rettangolino bianco: “Dovresti usare ogni spazio libero”. Dai istruzioni come se fosse una cosa davvero importante per te. A me non verrebbe mai di immaginare questi collegamenti tra gli oggetti e lo sfondo per dare realtà a una foto. Mi sembrerebbe bizzarro se non fossi tu la regista.  Mi dici che ti piace l’idea di occupare lo spazio e di intuire una destinazione in ogni sua parte. Che magari costruirai una scuola, un museo, una casa di cura.  Ti sfido a indovinare la mia destinazione: per adesso so solo che a settembre me ne andrò e che sceglierò una facoltà compatibile con i miei voti in matematica.

Allora è facile: PoliMi o PoliTo.”

Io prendo tempo: “Vedremo cosa succederà dopo la maturità.

In realtà non so bene cosa mi aspetto dall’estate e perché debba essere qualcosa di risolutivo.  Tu vorresti fumare, ma non sei ancora tanto spavalda da farlo in un posto così frequentato. Mi proponi di fare due passi fino al Tempietto.  Questi pochi chilometri di via marina compensano il fatto di vivere in una terra estrema, dove sei sempre indietro rispetto alle novità me se allunghi le braccia ti sembra di poter toccare il vulcano più alto d’Europa. Sei proprio a un passo dall’esotismo dell’isola ma hai un piede ancora sul continente.  Siamo il sud del sud, e un po’ mi piace, un po’ vorrei graffiare con la penna tutte le definizioni in cui non mi riconosco.  Cancellerei anche questo posto, l’ennesimo edificio moderno messo lì per dire che ad un certo punto della storia, la città è stata anche greca.

Ti siedi sui gradini del finto tempio: rolli una sigaretta per i tuoi riti segreti. Sulla parete alle tue spalle c’è un murales che riproduce il Bronzo B, una colonna dipinta e poi un tao gigantesco un po’ sbiadito.

Io ti guardo e non capisco perché tu voglia rimanere qui, in questa città luminosa e trascurata. I tuoi occhi azzurri sono l’unica percezione di pulizia in mezzo a bottiglie di vetro abbandonate, cartacce ingiallite, rifiuti di plastica degradati e non più identificabili. Mi avvicino. Sei precisa e delicata quando tasti quei fili di tabacco.

Sono seduto accanto a te e mi viene il fumo di faccia. Se sento il cuore in gola significa che devo sopportare.

Non voglio che questa giornata finisca qui.

“Ti va di venire a casa mia?”.

Non sarebbe la prima volta ma questa volta è diverso perché i miei sono fuori.

Per te va bene e allora riprendiamo a camminare, non conto più i passi in questa giornata.

Arriviamo davanti alla porta e metto le chiavi nella serratura. Che sollievo non doversi preoccupare di fare rumore e muoversi con calma.

Ti soffermi all’ingresso: nel tavolino di fronte allo specchio ci sono due metà di rossetto separate, un profumo, tante forcine sparse. Frammenti di adulti che non devono fare troppo caso alle loro tracce.

Nella mia stanza entra con prepotenza il sole di metà pomeriggio, abbasso la serranda per farti sentire al sicuro. Prendi il libro di italiano che ho lasciato sulla scrivania. Una matita divide due blocchi di pagine come un segnalibro, basta aprirlo per leggere la poesia che avrei dovuto analizzare per oggi.

La leggi. Aspetto il tuo commento ma dici solo che nella tua classe non siete ancora arrivati a Montale e digiti qualcosa sullo schermo del cellulare. Mi chiedi se puoi mettere un po’ di musica e io ti lascio fare. Scegli le canzoni migliori, quelle che io non conosco ma filtrate da te sembrano perfette.

Questo presente sembra l’unica cosa che può succedere mentre lo stiamo vivendo.

Voglio farti stare bene.

Diventi vicinissima e sento il tuo cuore che batte sotto il seno e penso che anche tu sei una creatura vivente. Dentro di te, ti do tutto quello che ho, per essere con te tutto quello che non possiamo essere fuori dalle pareti della mia stanza. Tu non parli ma sei più viva che mai. È il nostro modo di essere umani in due.

Ti dico che sono stato attento a tutto e che puoi stare tranquilla. Tu sembri davvero serena e rimani abbracciata a me ancora per un po’.  Squilla il cellulare. Tua mamma chiede tue notizie. Ci dobbiamo rivestire in fretta. Ti propongo un passaggio in macchina. Mi piacerebbe farti vedere che ho raggiunto in fretta una certa sicurezza nei movimenti meccanici della guida.  Tu insisti che vuoi tornare a piedi, allora ti accompagno quantomeno in strada. Di fronte casa mia c’è una scritta che ti fa sorridere: “Il mondo è piccolo se tu sei un grande”. Per te è una frase da megalomane, però io un po’ mi ci rivedo.  È un segno che qualcuno ha lasciato per me per dirmi che è lecito non fermarsi a quello che c’è.

Comunque sono contento che ti sia piaciuta quella poesia”.

Non hai detto che ti è piaciuta ma so che ti sei appuntata: “tendono alla chiarità le cose oscure”.

Non la dimenticherò. Adesso però devo andare. Ciao, Gabriele”

Ciao, Maia. Ci vediamo.”

È di nuovo il turno della luna, ti affido a lei senza dirtelo. Ti accompagnerà quando passerai villette storiche e ti chiederai se ci vedremo domani o tra un mese. Mi fermo a fissare il cielo che si fa sempre meno azzurro. Questa città ci comprende, la nostra prima luce in cielo ci dice cosa fare.

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