“Eugene e lo spettro di sangue” di Flavia Florindi – #dopolavoroletterario n. 11
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“Eugene e lo spettro di sangue” di Flavia Florindi – #dopolavoroletterario n. 11

Flavia Florindi ha scritto una romanzo che appartiene al genere fantastico, quello che dii solito si immagina vicino a letterature straniere e che invece nella tradizione italiana trova felice collocazione. Eugene, il protagonista, è un ragazzino che non abbiamo mai incontrato prima. Fratello e cugino e migliore amico di Pinocchio, Harry Potter e il barone rampante, è il protagonista di una storia che ha nella sua capacità di essere contemporanea  e universale nello stesso tempo. Ambientata a Penne, un paesino abruzzese, questa storia ha un pregio potrebbe averla scritta solo Flavia ma potrebbe attirare molti piccoli (e non solo) lettori.

Immagine presa da qui.

XVIII (Estratto)

Pedalarono spediti per ancora qualche centinaio di metri, poi la sosta per ammirare il panorama offrì a Eugene l’occasione per tornare alla carica; e Lucio non si fece pregare.

«Alcuni li conoscerai di vista, come il padre di  Saverio o il dottor Conte; altri li vedrai per la prima volta. Ah, ci sarà pure la madre di Samantha con le sue streghe: mi raccomando, occhio a quelle. Io? No, io non ho partecipato a nessun Gran Consiglio e chissà quando mai accadrà … Non ci posso ancora credere! Il Gran Consiglio!».

Così dicendo il giovane scosse frenetico la criniera fulva, Eugene da parte sua sorrise; intanto, con lo sguardo spaziava nell’orizzonte circostante, che regalava panorami mozzafiato.

«Senti, che ne diresti se andassimo in un posto non troppo lontano? Ti piacerà, ne sono certo».

«Tu conosci qualche angolo di qua che io non conosco? Mhm …va bene, ci sto».

Ripresero a zampillare dai pori come ruscelli di montagna, stando per lo più appaiati, il fiato che andava e veniva per lo sforzo intenso.

«Alla prossima curva rallenta e fermati» gridò a un tratto Eugene.

Lucio annuì, rabbrividendo: nonostante i calzettoni e la felpa l’aria in quel punto era molto frizzante.

«Ecco, laggiù».

Lucio pestò il freno, tracciò un angolo di centottanta gradi con la bicicletta e girò il capo.

In effetti in quel punto il fogliame si diradava e scopriva un interessante punto d’osservazione: profili di piccole colline dalle punte arrotondate degradavano dolcemente in una conca punteggiata di olivi e filari di vite; in lontananza, circondata da una rada foschia mattutina, si indovinava la fisionomia del paese.

«Uao! Che vista potente! Ma come l’hai scoperto questo posto?».

«Un pomeriggio, tornando in moto con mio zio da un’escursione».

«Guarda: un falco pellegrino!» esclamò a un tratto Lucio, indicando il volatile che sfruttando le correnti ascensionali sembrava procedere a motore spento.

«E’ la prima volta che ne incontro uno» ammise Eugene.

«Vedi che ti è convenuto venire a stare qui? E ora scoprirai altre cose belle!» concluse Lucio ammiccante.

Il ragazzo annuì, stringendosi nelle spalle.

«Spero non siano troppe …».

Lucio si voltò e lo guardò in un modo particolare, lo stesso che aveva scorto qualche volta sul viso di suo zio.

«Andrà tutto bene – disse il pel di carote – e poi hai la fortuna di avere il più fantastico dei maestri a tua disposizione: tuo zio »

Pedalarono ancora  fino a incontrare un terrapieno dominato da una vecchia casupola sgangherata: Eugene e Lucio lasciarono le loro biciclette dietro una siepe, portando con sé solo uno zainetto, e poi il giovane dai capelli rossi mostrò al suo amico un piccolo sentiero che si inerpicava su per il fianco di quel rialzo

«Non ti fermare ora: vedrai da lassù che vista! Non ti pentirai di questa faticaccia. Ecco, ci siamo!»

E così dicendo Lucio corse verso un gigantesco ulivo, si liberò della felpa e piantò energicamente il suo sedere all’ombra della smisurata chioma. Molto più compassato, Eugene si guardò intorno e restò a bocca aperta: Lucio non esagerava! Quella collina era la più alta e la più centrale delle altre: da lassù si poteva guardare ovunque e da lì tutto sembrava piccolo e minuscolo, quasi insignificante.

«Allora?» domandò il pel di carote, che gongolò appena vide il pollice di Eugene rivolto in alto.

Il biondino guardò ancora un po’ in giro, lasciandosi accarezzare dalla brezza, quindi raggiunse l’amico.

«Davvero bello».

Lucio sorrise, stendendogli un panino.

«E’ tranquillo qua: a parte gli animali non penso ci venga nessun altro. Troppo faticoso. Allora, quando voglio starmene un po’ in pace, vengo quassù.»

Sedettero e tra un boccone e l’altro Lucio terminò di soddisfare la curiosità di Eugene, narrandogli la storia della comunità magica.

Apprese così le antiche origini di quella specialissima comunità di cui anch’egli ora faceva parte: cioè di come uomini e donne, vissuti in cattività sulle montagne abruzzesi nel timore di venire accusati di stregoneria, mentre a Trento si consumava la definita  separazione tra chiese protestanti e chiesa cattolica, furono denunciati alla Santa Inquisizione; portati a Napoli e torturati senza nessuna considerazione, per loro fortuna il religioso incaricato del caso alla fine capì che il Diavolo non c’entrava nulla e che si trovava di fronte a persone nate proprio così. Quel religioso li fece rimettere in libertà e dichiarò che erano innocenti. Uno sveglio così fa carriera e infatti Odescalchi fu nominato prima nunzio a Napoli e poi vescovo di Penne. E quando il papa decise di organizzare una Lega Santa contro i Turchi, che avevano ripreso ad attaccare le colonie e le navi europee in Medioriente, Odescalchi mandò a chiamare quelli che aveva liberato e chiese loro di combattere al servizio della Lega; in cambio, promise che avrebbero potuto vivere senza più doversi nascondere nella diocesi da lui amministrata. Così avvenne. La nuova crociata fu vinta; i superstiti e i loro famigliari ottennero finalmente il riconoscimento della propria dignità; Penne divenne teatro di un esperimento di convivenza etnica mai tentato prima, di cui il vescovo lungimirante assicurò la continuità oltre la propria morte con un singolare decreto che impegnò tutti i propri successori.

«Da allora, chiunque diventi vescovo di questa diocesi viene a sapere della nostra esistenza e come noi rinnoviamo l’impegno di vivere in un certo modo così lui si impegna a proteggerci» concluse Lucio.

«Vivere in un certo modo?» gli fece eco il biondino.

«Secondo il regolamento: c’è un codice che regola il nostro rapporto con gli altri e l’uso in generale della magia …».

Eugene aggrottò la fronte.

«Confesso di averti sondato – ammise Lucio – ma solo un po’».

«Mi hai cosa?».

«Sondato … letto nel pensiero, insomma … quando un mago ti fissa per qualche secondo di troppo, allora probabilmente si sta facendo i fatti tuoi …».

«E questo è permesso?»

Lucio fece un cenno di assenso mentre addentava le albicocche.

«Sì, ma senza esagerare: non dobbiamo danneggiare gli altri».

Gli altri.

Lucio aveva usato due volte quel termine: Eugene capì che si riferiva alle persone che non possedevano alcun tipo di capacità magica.

«Nel corso del tempo ci sono state un po’ di modifiche – stava dicendo ancora il pel di carote – ma la sostanza è restata sempre la stessa: mai approfittare e mai usare la magia per scopi malvagi».

«Qualcuno lo ha fatto?» domandò incuriosito Eugene.

«Qui mai. Però altrove sì».

Eugene sgranò ancora gli occhi: Lucio ridacchiò, poi diventò di colpo serio.

«Ricordo qualche anno fa il caso di un mago: si chiamava Magnus e il Gran Consiglio Supremo, quello dove siedono i capoccia delle varie comunità, e dove all’epoca c’era pure tuo zio, lo cacciò per le troppe schifezze da lui combinate … non si è saputo più nulla di lui …».

«Allora processate anche voi i cattivi …» osservò Eugene allusivo.

Lucio sorrise, assestando un morso alla sua pesca, quindi ne cavò un’altra dal cesto e la lanciò verso l’amico, già pronto con le mani tese; invece quella si fermò a mezz’aria, come il fotogramma di una pellicola in pausa, roteò qualche secondo e corse veloce fino a un albero non lontano da lì, dove si poggiò sopra un ramo.

Al biondino si aprì la bocca per la sorpresa: rizzatosi di corsa, raggiunse la pianta, un comunissimo nocciolo, dove constatò che la pesca si era davvero attaccata a un picciolo scapsulato.

«Come fai?» domandò Eugene quasi urlando mentre staccava di nuovo il frutto.

«Allenamento. E poi allenamento. E di nuovo allenamento» sentenziò Lucio.

«Sei bravissimo!» esclamò Eugene eccitatissimo.

«Non quanto vorrei – si schernì il pel di carote, che poi aggiunse – se lo fossi stato davvero, quella sera, prima che tu ti battessi con Saverio, avrei potuto liberarti …però, è anche vero che così hai scoperto il tuo … Dio mio, sembrava tutto così assurdo!»

Eugene increspò per un attimo gli angoli della bocca.

«Mio zio si è offerto di allenarmi …» disse a un certo punto.

Il pel di carote strabuzzò con tale violenza gli occhi da farli quasi precipitare sull’ombelico.

«Ma è una cosa fantastica! Tuo zio è un maestro validissimo. Se te lo ha detto, vuol dire che tu hai un grosso talento, anzi grossissimo! Altrimenti, non te lo avrebbe proposto: pensa che tanti lo hanno pregato però tuo zio ha rifiutato . Ma tu che gli hai risposto? Hai accettato? Non dirmi che hai rifiutato?!?».

Eugene scosse il capo.

«Non gli ho ancora detto nulla».

«Pensaci bene, è una grande opportunità: ci sono altri, in paese, che darebbero un braccio o un occhio per essere al posto tuo!».

«Ti riferisci a Saverio? ».

«Esatto: Saverio è un pallone gonfiato ma tra noi è quello che ha più capacità; almeno era così fino a quando non ti ho visto all’opera …».

Parlarono fino a svuotare il cestino, poi ripresero la via di casa.

Mentre scendevano, Eugene considerò tra se e sé che quel posto gli era proprio piaciuto e si ripromise di tornarci presto, prima che il cambio di stagione e la scuola glielo impedissero. Già, la scuola…

Avrebbe dovuto già sostenere l’esame di idoneità, ma il giorno prima era successo ciò che era successo…. e mancavano pochi giorni alla fine del mese! Quando avrebbe sostenuto la prova?

Sovrappensiero, Eugene non si accorse della cunetta se non all’ultimo momento: sterzò, oscillò, ma riuscì a tenersi in equilibrio.

« E’ colpa mia: ero distratto. Pensavo all’esame di idoneità…».

Lucio gli diede una pacca sulla spalla e poi assunse l’aria di chi è esperto in materia.

«Non preoccuparti! Tu sei nato e cresciuto in America e là tutto è organizzato. Ma qui siamo in Italia e le cose vanno diversamente. Sicuramente gli addetti rientreranno dalle ferie lunedì e massimo massimo martedì ti telefoneranno. Così faremo gli esami insieme: io ho la verifica del corso di recupero. Dai, stai tranquillo. Dammi retta».

Eugene annuì con un movimento impercettibile del capo: riprese a pedalare e piano piano il malumore si attenuò fino a sparire, lasciando il posto al pensiero  della sgambata;  sbuffò, sudò, imprecò anche, caparbio, tenace, fiero di accorciare metro dopo metro la distanza tra sé e la meta.

Mancavano ancora due brutte salite: i muscoli iniziavano a dolere e il sudore correva ormai a fiumi sopra e sotto la t-shirt, ma nessuno dei due voleva mollare, accettando l’idea di scendere e farsela a piedi. Affrontarono  l’ultima salita, quella che poi immetteva sulla strada provinciale: strinsero i denti, gonfiarono le mascelle, sollevarono i reni per affondare meglio sui pedali; iniziarono a issarsi, facendo gemere ogni singola cartilagine. E insieme giunsero l’uno accanto all’altro in paese, dove spossati infilarono braccia e testa sotto la prima fontanella lasciando scorrere l’acqua fresca dentro la maglietta incrostata di sale.

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