“Cera” di Alessandra Fumagalli – DopoLavoroLetterario n. 37
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“Cera” di Alessandra Fumagalli – DopoLavoroLetterario n. 37

“Cera” è una storia delicata e sottile, come la voce dell’autrice che la racconta. La storia è ambientata in un’isola che si chiama Cera, da cui una volta lette le prime pagine si fa fatica ad andare via. Come si fa fatica a dimenticare il guardiano del faro, che sembra più il guardiano del Fato della protagonista, Alice: una giovane donna che ritrova se stesso in messo agli spietati silenziosi segreti di una comunità che pare Dogville. Bellissimo manoscritto che deve non solo può trovare una casa (editrice) per dare rifugio ai molti lettori che lo ameranno.

(Questo è uno stralcio del romanzo, la foto è dell’autrice)

Capitolo tre

Fu di notte che incontrai il guardiano del faro: fumava sul dondolo in veranda. I suoi riccioli mi sembrarono trucioli di legno appena caduti sul pavimento. Gli passai accanto sorridendo e andai a sedermi sui gradini, senza smettere di succhiare il ciondolo. Finsi di interessarmi alle stelle e rimasi per un po’ con la testa inclinata all’indietro. Ritornai in una posizione più naturale e sbirciai nella sua direzione. Il guardiano alzò i piedi da terra e prese a muoversi avanti e indietro. Lo interpretai come una specie di richiamo. Non volevo sembrargli scortese e mi decisi a fare un mezzo giro verso di lui, senza sollevare il sedere dal legno. Ora lo avevo di fronte. Aumentò il ritmo. La struttura cigolava nelle discese e nelle risalite. Lui sembrava godere del mio sbigottimento: ero preoccupata che il dondolo si potesse staccare dagli ancoraggi. Sobbalzavo se l’intensità del cigolio mutava. Poi di colpo puntò al suolo i talloni e il rumore cessò. La sigaretta spenta la teneva ancora stretta tra le labbra. Notai che pur se nascoste dalla barba, le aveva carnose e di un rosa vivo. Lo fissavo come facevo da bambina con le luminarie dell’albero di Natale.

-Qual è la parte della rosa che preferisci? – disse il guardiano alzandosi.

Ci pensai e senza sapere cosa stessi per dire mi uscì:

-Le spine.

-Perché? – mi chiese avvicinandosi.

-Perché sopravvivono.

-Una isolata dall’altra, però- disse gettando il mozzicone oltre la ringhiera. Si accostò alla lanterna appesa all’ingresso del portico. Sputai fuori il ciondolo che ancora tenevo sotto la lingua, richiusi le gambe e intrappolai le braccia al loro interno, tese e umide.

-Mi chiamo Alice – mi sbrigai a dire prima che mi raggiungesse.

-Lo so. Un nome però non mi basta.

-E cosa, allora?

Inclinai la testa verso destra e mi alzai.

-Vuoi veramente che te lo dica? – chiese mostrandomi i denti in un sorriso che mi parve un ghigno.

Io deglutii più volte mentre scendevo i due scalini che mi separavano dalla strada.

Lui mi passò vicino e ci sfiorammo: la sua camicia svolazzante contro la mia gonna a pieghe.

Si muoveva con leggerezza nonostante la corporatura da orso.

La luna nuova ne illuminava il passo mentre ritornava nella sua tana.

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