24 Set “Il canelupo” di Giovanni Menzani
Un racconto tratto dall’ultima raccolta di Giovanni Menzani “Comportati da uomo”, Liberaria
IL CANELUPO
Quando faticosamente mio figlio si rialzò e, tenendosi in equilibrio sulle sue gambette ormai senza muscoli, mi implorò: lo portiamo a casa, papà?, io non seppi dire di no. Anche se sapevo che mia moglie si sarebbe arrabbiata. Che si sarebbe molto arrabbiata. Avrebbe fatto una scenata, mia moglie, vedendoci arrivare a casa con un cane pieno di pulci, senza un preavviso. Per questo a lei non avevamo parlato della nostra visita al canile municipale.
Eravamo stati accolti dall’abbaiare stanco di una coppia di randagi rinchiusa in un serraglio. Il pavimento sporco di sangue e fanghiglia. In una scodella ammaccata, i resti di un misero pranzo, una manciata di crocchette che puzzavano come carogne in decomposizione. Dio solo lo sa, cosa ci mettono in quelle maledette palline colorate. Appena fuori la gabbia, il canale di scolo era intasato di escrementi. Si era avvicinato a noi un uomo con una canna in mano. Indossava una tuta di tela leggera e stivali di gomma. L’uomo ci aveva chiesto di allontanarci e poi aveva aperto il getto d’acqua sull’acciottolato: con un leggero movimento del polso faceva roteare la canna, cercando di indirizzare gli escrementi nel canale di scolo. C’era dell’arte in quel suo muovere il polso. Io e mio figlio eravamo rimasti ipnotizzati a osservare la merda che galleggiava lungo il percorso verso un pozzetto scoperchiato in mezzo all’aia inghiaiata.
Alle nostre spalle era giunta una volontaria, una ragazza con i capelli ricci, raccolti sopra la nuca con uno chignon, i lineamenti esotici e la pelle di colore olivastro. Ci aveva detto che la scambiavano per un’araba, un’africana del nord, o comunque una straniera: era proprio una seccatura. Era stata la prima cosa che ci aveva detto. Forse era stufa di sentirselo chiedere. Portava un maglione sformato e dei pantaloni larghi, con il cavallo all’altezza del ginocchio, e al polso aveva un vistoso groviglio di braccialetti di corda. Ci eravamo scambiati una debole stretta di mano, poi ci aveva invitato a entrare nell’ufficio ricavato con delle tavole di legno al piano terra di un fienile diroccato.
Ci siamo già visti, mi aveva detto lei, puntandomi addosso i suoi meravigliosi occhi neri.
Davvero?, avevo balbettato io. E quando?
Non è il notaio?
Sì.
Sono venuta da lei per il riscatto dell’appartamento dei miei genitori. Vivono da trent’anni nelle case popolari oltre il ponte di ferro.
Io avevo annuito imbarazzato. Razza di idiota, pensavo, come fai a non ricordarti di lei? Mi ero aggiustato il cappello alla John Wayne sulla fronte, poi avevo spostato la mia attenzione alle pareti del capanno, dove erano appesi dei disegni di bambini.
Sono i ritratti dei cani che hanno adottato, aveva spiegato la ragazza. Chiediamo a tutti i bambini di mandarcene uno. Lo chiederemo anche a te, aveva aggiunto accarezzando mio figlio sul capo.
Dopo aver terminato la compilazione del registro visitatori ‒ lei aveva chiesto i miei dati anagrafici, ma mio figlio aveva voluto darle i suoi. Sarà il mio cane, aveva sentenziato ‒ con la ragazza ci eravamo avviati verso il reparto dei meticci.
Come arrivano qui?, avevo chiesto io, per poi pentirmi immediatamente di una domanda così stupida. Volevo solo sentire di nuovo la sua voce.
Ci sono cani abbandonati sulla corsia di emergenza dell’autostrada, aveva risposto lei, o in un’anonima strada di periferia. In un vecchio camper scassato e pieno di adesivi. Cani che girovagano nelle campagne, senza collare e senza microchip. Cani che restano a guardia di un pollaio abbandonato, cani sopravvissuti leccando un pentolino arrugginito in mezzo al terriccio umido. Cani nati qui in canile. Cani riportati al canile dai loro proprietari, dopo una sola settimana di vita comune: perché i cani erano un impegno, e loro non se lo potevano permettere. Cani a cui è morto il padrone. L’altro ieri è arrivato un bastardino dal pelo corto, il muso appuntito, a macchie bianche e nere, aveva detto lei. Il suo padrone era un senzatetto, è stato trovato morto assiderato ai bordi di una strada.
Be’, almeno il cane si è salvato, avevo commentato mesto. Mi ero chiesto se era una frase intelligente da dire in questa situazione, ma non ero riuscito a darmi una risposta. Quella ragazza mi metteva in soggezione. Quei suoi occhi neri: non riuscivo a dire nulla di sensato.
Ancora: cani che hanno morso qualcuno. Pochi, tuttavia, aveva detto lei. Di norma questi cani vengono soppressi con un’iniezione letale a base di embutramide, mebenzonio ioduro e tetracaina cloridrato. Questa soluzione, aveva aggiunto con un tono distaccato, provoca l’immediato blocco cardio-respiratorio, e l’ipossia cerebrale porta alla morte dell’animale in pochi minuti.
Ma si trattava, per lo più, di bastardini di piccola taglia, dal muso arruffato e l’espressione malinconica. Spingevano contro la rete metallica, in tono di supplica.
Ci piangeva il cuore, non poter fare nulla per loro. Ma certo non potevamo portarli tutti a casa.
E poi: erano così brutti.
La volontaria ci aveva mostrato un cane con un ciuffo bianco sul cranio squadrato che batteva la coda per terra. Un cane aveva le zampe talmente tozze che sembrava gliele avessero spezzate con un tronchesino: un cane nano. Un cane villoso, piuttosto grasso. Un cane spelacchiato a causa della tigna. Un altro cane aveva il muso nero e i baffi sottili come il filo da pesca. Ancora, c’era un cane che aveva le setole corte e grigiastre, e assomigliava troppo a un ratto di fogna. Quel cane era davvero brutto. Più brutto di un ratto di fogna.
Io avevo temuto che mio figlio scegliesse quello.
Per l’amor di Dio, avrei voluto dirgli, non scegliere quell’orribile topo di fogna.
Dio, fa che non scelga proprio quello.
Lui non sembrava convinto. Si era trascinato da un recinto all’altro aiutandosi con una stampella che usava come un bastone. A quei tempi aveva iniziato ad avere i primi problemi di deambulazione, ma ‒ testardo com’era ‒ non voleva farsi aiutare. Aveva passato in rassegna quei randagi malandati, aveva parlato con ognuno di loro, aveva infilato le sue manine gracili attraverso le maglie della recinzione sino a sfiorarli, ma non si era fermato con nessuno.
Era rimasto in silenzio, limitandosi ad ammirare i campi di granoturco oltre la staccionata sbiancata dal sole che delimita il canile sul lato opposto all’ingresso.
Non ne hai trovato nessuno che ti piace?, gli avevo chiesto. Ero mortificato all’idea di andarmene da quel posto senza portare via un cane, soprattutto mi seccava fare una brutta figura con la volontaria, che era proprio un bel tipo. Insomma, mi piaceva.
Nel frattempo lei si era allontanata con discrezione. Aveva richiamato l’attenzione dell’uomo con gli stivali e la canna di gomma per dirgli di pulire il recinto dei malinois, dove aveva visto la luce un’inconsueta cucciolata di undici esemplari. Undici!, si era lamentato lui allargando le braccia.
Mio figlio mi aveva risposto con un filo di voce. Avevo dovuto fargli ripetere le sue parole. Mi sforzavo di non farlo, per non metterlo in imbarazzo. Ma spesso non lo capivo.
Non è che non mi piacciono, aveva sussurrato. Anzi, mi piacciono tutti.
E allora cosa c’è?
È che… insomma, sono cani piccoli. Io non voglio un cane così piccolo!
Piccoli?
Sì, io mi ero immaginato un bel cagnone, aveva detto lui appoggiandosi alla staccionata.
Un cane grande.
Faticava a reggersi in equilibrio, e questa volta ero stato costretto ad aiutarlo, nonostante sapessi bene che non apprezzava affatto il mio gesto. Faceva caldo ed eravamo in uno spiazzo assolato, senza uno spicchio d’ombra: già aveva battuto mezzogiorno. E quella staccionata di legno non sembrava stabile.
Lui mi aveva guardato con fissità.
Io ero andato a cercare la volontaria e le avevo spiegato il problema. Lei mi aveva concesso un sorriso che mi era sembrato sincero.
Dovevate dirlo prima, aveva detto, che volevate un cane grande.
Nemmeno io avevo un’idea precisa, avevo balbettato.
Non ve li ho mostrati subito, aveva detto lei, perché quelli di taglia grossa non li vuole nessuno. Sono più impegnativi, mangiano tanta carne ‒ alcune razze arrivano a mangiare più di un chilo di carne al giorno, lo sapevamo? ‒ e ci vuole un bel giardino… e quanto sporcano!
Dove abitiamo noi c’è un grande parco con delle querce secolari e un viale di cipressi all’ingresso, avevo detto io. Sono più di venti pertiche di terreno. C’è un bosco di faggi con un ruscello che non si asciuga mai, nemmeno in estate. Mentre parlavo muovevo le mani nell’intento di descriverle il luogo, sembravo quasi volerlo dipingere. Mi sembrava di tratteggiare i contorni dell’antica casa padronale, con i suoi muri possenti in pietra, le travi in rovere e le tavelle di cotto fatte a mano, la cantina con la volta in mattoni. Avrei voluto schizzarle su un foglio di carta la torre colombaia che si ergeva al centro della facciata principale, e che svettata sulle colline all’orizzonte.
Ci siamo trasferiti da poco, le avevo raccontato.
Stavo per aggiungere: da quando i medici hanno diagnosticato la malattia di mio figlio. Ma mi ero fermato: non c’era nessuna ragione di parlarne a una sconosciuta come lei. Era il mio modo per esorcizzare il dramma: ne parlavo con tutti. Gente incontrata per caso. In coda alle poste, all’edicola, dal benzinaio, al bar sulla strada che porta in città, in attesa di un caffè corretto con la sambuca. Gli amici del circolo del tennis ormai mi evitavano, perché non ne potevano più delle mie recriminazioni e dei miei pianti.
Sii uomo, mi dicevano.
Devi reagire da uomo, mi dicevano.
Uno della tua posizione, dicevano. Non sta mica bene andare in giro a piagnucolare con gli sconosciuti. Non fai mica una bella figura.
Così farai pena a tutti, mi dicevano.
E dunque avevo detto: eravamo stufi della città.
Di tutti quei rumori, di quegli odori.
Della polvere che ti si infila tra le palpebre.
Delle code in tangenziale.
Delle auto parcheggiate in seconda fila.
Dei distributori automatici di lasagne al ragù.
Di quell’orizzonte livido che incombe sulla città.
La volontaria ci aveva accompagnati in un altro reparto, oltre l’aia inghiaiata, dove le gabbie erano più grosse e alla cui sommità era stato messo del filo spinato. Le salve di latrati ci avevano colti impreparati.
Io avevo provato a chiedere se c’erano dei bulldog.
Portandosi un dito all’orecchio – un orecchino di legno che le deformava il lobo sinistro ‒ la ragazza mi aveva fatto capire che, lì dentro, era inutile parlare.
Mio figlio sembrava disorientato in mezzo a quel caos, ma poi aveva visitato con aria curiosa i loculi, che erano chiusi con spranghe di ferro, catene e lucchetti. Io ero rimasto in disparte. Avevo lanciato un’ulteriore occhiata complice alla volontaria, che aveva abbassato lo sguardo arrossendo.
Il bambino si era bloccato davanti a una gabbia di un canelupo che guaiva rauco davanti a una bambola di pezza con l’imbottitura di fuori. Era restato a lungo davanti al cancello, facendosi leccare le mani dall’animale attraverso le strette maglie metalliche. Poi si era girato verso di me.
Non c’era stato bisogno di discuterne.
Lo avevamo portato a casa dopo una visita sommaria da parte del veterinario del canile, un uomo dall’aspetto truce ma dai modi dolcissimi, che con grande professionalità ci aveva spiegato dei vaccini ‒ molti sono contrari ai vaccini per i cani perché hanno paura di reazioni pericolose o perché convinti di farli soffrire troppo, mai lui lo trovava un comportamento dettato dall’emotività: erano più pericolose certe malattie. Certe malattie erano mortali, aveva detto ‒ e mostrato su un tablet dove trovare i prezzi più convenienti del cibo per cani.
Avevamo persino evitato la visita di routine da parte degli psicologi dell’associazione che gestisce il canile, in appalto dal Comune: prima di dare un cane in adozione, ci aveva spiegato la volontaria mentre ci accompagnava alle gabbie, di norma mandiamo un addetto a controllare se ci sono le condizioni necessarie: se il luogo è adatto, se il cane ha il suo spazio vitale a disposizione, se il cane dorme al coperto.
Nel nostro caso, non se ne fece nulla: la potenza di due stampelle e di un viso scavato dalla malattia.
La potenza della disperazione di un padre.
Era stata una fatica immane far salire il canelupo sul furgone.
Probabilmente lo hanno scaricato da un’auto, ci aveva detto il veterinario: è per questo che non vuole salire. Ha paura di essere abbandonato di nuovo.
Eravamo stati costretti a issarlo dentro in tre, tenendogli le zampe legate con una corda. Per sicurezza gli avevamo infilato una museruola.
Durante il viaggio il canelupo si era un po’ sciolto. Sembrava essere consapevole dello spettacolo del crepuscolo dai toni purpurei che scontornava le lievi colline che costeggiavano il fiume. Nel cielo, gli uccelli volavano in formazione.
Mia moglie si era arrabbiata.
Ci mancava solo un cane, aveva detto esterrefatta. Non pensi che la situazione non sia già di per sé complicata?, aveva sibilato scendendo i gradini dell’ingresso principale. Anziché essermi d’aiuto… io proprio non ti capisco.
Ma poi si era accorta della felicità che aveva letteralmente travolto il viso del nostro unico figlio, che senza farsi notare si era avvicinato a noi per stringerci in un lungo ed emozionante abbraccio.
Noi tre, in lacrime, in piedi nel piazzale davanti al garage.
Al centro il canelupo, spaventato, ancora con addosso la museruola.
Nei primi tempi, nostro figlio voleva accompagnarlo fuori. Uscivamo insieme ‒ io, lui e il canelupo ‒ un’ora prima della scuola. Nella quasi oscurità ci incamminavamo lungo le mulattiere tra i campi che fuggivano via, scendevamo sino al fiume, dove ci sedevamo a cavalcioni sulla riva tra i sassi appuntiti. Da lì, lo incitavamo a inseguire le lepri e gli aironi cinerini. Durante l’attesa, chini sulle ginocchia sino a toccare con le mani a terra, lanciavamo i sassi contro il pelo dell’acqua. Andavano scelti con accuratezza, i sassi: piatti e dalla forma arrotondata, non troppo pesanti ma nemmeno troppo leggeri. Andavano lanciati con un gesto rapido, uno scatto del polso deciso, e bisognava tenerli perfettamente orizzontali, perché dovevano andare a impattare il pelo dell’acqua torbida come se la dovessero accarezzare. Io non sono mai stato abile, a lanciare i sassi. Non come mio fratello, che gli faceva fare decine di salti, fino a raggiungere la riva opposta del fiume.
A volte il canelupo si infilava in un boschetto di robinie o in una macchia fitta di vegetazione, scomparendo alla nostra vista. Mio figlio temeva che non tornasse più, e urlava a squarciagola il suo nome, urlavamo a squarciagola il suo nome. Qualche minuto più tardi tornava ansimante da una curva che delimitava il campo di stoppie. Accaldato e con la lingua a penzoloni, si immergeva fino al garrese e annaspava con le zampe per tenersi a galla. Il fiume era un pericolo, con quell’acqua melmastra e quei mulinelli ti trascinavano a fondo. Ci si poteva annegare.
Anche i campi di stoppie erano un pericolo, ma noi ancora non lo sapevamo.
Era accaduto una domenica di marzo. La salute di nostro figlio andava peggiorando, inesorabilmente. Ormai non riusciva più a muoversi. Passava il suo tempo in giardino, su una carrozzella parcheggiata all’ombra di un albero di noci.
Anche il canelupo faticava a muoversi, in quei giorni. Il bambino lo aveva chiamato più volte, quella mattina di una domenica di marzo, nel prato zuppo di pioggia, ma l’animale non si era fatto vedere. Era disperato. Io avevo finito di armeggiare con le cesoie e mi ero messo a cercarlo, e così aveva fatto anche mia moglie. Lo avevamo cercato ovunque, lungo le siepi di bosso e di biancospino, nel roseto, sotto la pergola del glicine. Nella casetta degli attrezzi. Nel garage, dove spesso lo chiudevamo per errore: durante la notte lui iniziava a ululare, ululava fino a quando non decidevamo di alzarci e di scendere, in pantofole e vestaglia, per aprirgli la porta. Quella domenica lo avevamo trovato infine accucciato contro il forno a legna. Immobile. Il respiro affannoso sembrava riempirgli e svuotargli la pancia.
Senza esitazioni lo avevamo caricato sul furgone e lo avevamo portato dal veterinario. Naturalmente nostro figlio era voluto venire: avevamo dovuto caricare lui sul sedile del passeggero e la carrozzella nel vano posteriore, insieme al canelupo. Era preoccupato. Si contorceva i lembi del giubbino, mordendosi l’interno delle guance.
Il veterinario ci aveva spiegato che alcune piccole spighe, raccolte in un campo di grano, gli si erano infilate tra le zampe, e poi via sotto la cute avevano viaggiato tra i capillari e infine nelle vene, provocandogli un’infezione pericolosa. Per fortuna l’infezione non aveva raggiunto un organo vitale, altrimenti non ci sarebbe stato più nulla da fare. In quei casi, le bestie morivano in poche ore. Il veterinario aveva prescritto al canelupo una cura di antibiotici e di antidolorifici, perché stava soffrendo.
Nostro figlio, seduto sulla sua carrozzella in un angolo dell’ambulatorio, lo aveva ascoltato senza tradire particolare emozione. Una volta fuori, era scoppiato in lacrime.
Eravamo tornati dal dottore qualche tempo dopo, e lui aveva lisciato il pelo del canelupo con una spazzola di ferro sino a scoprire una macchia di liquido scuro nella zona nascosta dal collare. Avvicinandoci, eravamo stati investiti da una zaffata di odore marcio. Poi il dottore aveva medicato quella che sembrava essere una ferita da arma da taglio, dopo aver pulito la zona con un piccolo rasoio. Ci aveva detto che l’odore era provocato dalle larve delle mosche. Sul pavimento di gres lucido, insieme al pelo cadevano dei piccoli vermi biancastri.
Nostro figlio tossicchiava a bocca chiusa, nel suo angolo, seduto sulla sua carrozzella.
L’estate successiva nostro figlio si era aggravato.
Era rimasto costretto a letto dall’incedere della malattia. I cuscini dietro la schiena. La pelle floscia. Le mani grinzose. Il moccio al naso.
Il canelupo aveva il permesso di entrare e uscire dalla sua cameretta, la grande vetrata affacciata sul pergolato avvolto dal glicine era sempre aperta. Spostandosi con la sua andatura goffa, l’animale combinava danni: aveva staccato persino i tubicini della flebo dal respiratore, ma ce ne eravamo accorti subito e ci eravamo fatti una risata. Nostro figlio lo voleva sempre accanto. Gli accarezzava il capo e parlottava con lui: lui e la bestia sembravano quasi scambiarsi impressioni ed emozioni.
A volte, gli ordinava di fare il morto: il cane si stendeva per terra e sembrava quasi non respirare più.
A fine estate, dal suo letto aveva telefonato al veterinario perché l’animale gli sembrava stitico: il dottore gli aveva somministrato dell’olio di ricino. La colpa era delle ossa di manzo che ci dava il macellaio che aveva la bottega nella piazza del paese, se il canelupo aveva questo problema.
Una notte di luna piena, era metà ottobre, nostro figlio aveva avuto la prima, grave, crisi cardiaca.
Lo ricoverammo all’ospedale, dove era stato tenuto per un po’ di tempo sotto osservazione prima di spostarlo nella camera iperbarica.
Mia moglie e io non potevamo fare nulla. Passavamo le ore, i giorni, le settimane, nel corridoio al neon dell’ospedale, dormendo su una sedia di plastica o appoggiati contro la porta del bagno.
Aspettavamo.
La pioggia cadeva.
Aspettavamo e basta.
Dopo undici giorni ci era stato concesso di vedere nostro figlio. Era irriconoscibile. Rasato a zero. Magrissimo. Talmente magro che sembrava non avere nemmeno l’ombra.
Gli occhi impauriti appesi alla pelle del cranio.
Faticava a parlare. Ci eravamo accostati da una parte e l’altra del letto, e gli avevamo accarezzato le mani.
Lui aveva roteato le pupille verso di me.
Ansimando, aveva chiesto: papà, come sta il canelupo?
Il canelupo sta bene, avevo sussurrato io stringendo le sue mani, sempre più fredde. Non ti devi preoccupare per lui.
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