“Bocche da riempire” di Marta Pavesi #dopolavoroletterario n. 65
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“Bocche da riempire” di Marta Pavesi #dopolavoroletterario n. 65

Marta Pavesi, allieva di “Una storia tutta per sé” e di “Scarti”, ha una scrittura che solo in apparenza sembra pura, nell’accezione di spuria. La purezza delle sue storie è il contrario della mancanza di visione, è proprio la precisione con cui vede personaggi, voci, storie, odori, suoni che le permette di inventare, anche quando non inventa del tutto, un mondo narrativo. Non vedo l’ora che qualcuno le dica che il contratto di edizione è pronto, può esordire; a dirle brava ci penseranno tutti, ne sono certa.

Bocche da riempire

di Marta Pavesi

A Ca’ delle Mosche tutti, non solo gli animali, diventavano marroni in poco tempo. I più veloci, erano i bambini.

Quattro di loro sedevano intorno al tavolo e bisticciavano per contendersi fogli e pennarelli. Gli altri due erano immobili in disparte e si fissavano con le braccia conserte. Sopra la stufa, stava appeso, per quel che ne rimaneva delle zampe posteriori, un animale scorticato. Senza più estremità. Senza neppure la testa. Ormai esangue, quasi senza colore o altri connotati.

Michele sciolse le braccia e disse «Tempo scaduto.»

Prese il fratello per le spalle gli diede una scossa. Poi un’altra. E un’altra ancora, fino a quando quello non aprì bocca.

«Non lo so, Michele. Non lo so, se per me assomiglia più a un agnello o a un cane» piagnucolò.

«Te lo dico io. Questo è un cane» gli disse Michele.

Sentendolo, il padre tirò un pugno sul tavolo. Pennarelli e bambini sobbalzarono con lo stesso ritmo.

«Michele, basta con questa storia o nessuno di voi stasera mangia» urlò.

Le grida fecero uscire dal bagno la madre, che non aveva fatto in tempo a far scolorire gli occhi ancora rossi e carichi di acqua.

«Sono solo bambini, lasciali stare» disse lei.

«Sono bocche, non bambini. Sei bocche da riempire e se non si riempiono di cibo, lo vedi da te, si riempiono di cavolate» disse lui.

«Charlie Brown, io non lo mangio» disse Michele.

Si avvicinò alla madre come per proteggersi, mentre l’animale irriconoscibile, incurante della discussione che lo riguardava, sgocciolava l’ultimo fiotto di colore sopra la stufa.

Tutti i fratelli, tranne Michele, si erano riuniti intorno al tavolo.

«Piantala, non è Charlie Brown» gli dissero.

«Charlie Brown non è morto, non si fa vedere da due giorni perché è scappato» dissero.

«Non è scappato, è lui, appeso al gancio. È un cane quello. Lo ha ucciso papà per darci da mangiare. Ma io non lo mangio. Io non sono come voi. Io non sono uno che si prende cura degli altri, per poi mangiarseli a cena.»

«Zitto, che noi abbiamo fame. Pensa un po’, noi, invece, vogliamo mangiare. E a noi non interessa, chi muore per farci mangiare» dissero i fratelli.

La madre di Michele, con lui alle calcagna, si avvicinò all’animale appeso e iniziò a massaggiarlo con dell’olio d’oliva. Disse al figlio di non preoccuparsi, che a lei non sembrava né un agnello né un cane. Poi, lo tolse dal gancio e lo appoggiò su una teglia piegandocisi un po’ sopra, come a dargli il bacio della buonanotte.

«Facevi così anche con me?» le chiese Michele.

«Per l’amor del cielo, non far arrabbiare tuo padre.»

Aprì lo sportello e infornò.

«Tra due ore vedi come diventa bello colorato. Quando è marrone, è pronto per essere mangiato.»

Michele corse via sbattendo la porta finestra.

I fratelli abbandonarono tavolo e pennarelli per correre a cercarne, con le dita abbronzate e le unghie sporche di terra, i danni sul vetro. Poi, si misero a ridere, tutti.

«Meno male, che non l’ha rotta, quello stupido» dissero.

Poi lo chiamarono in coro: «Mi-che-le. Mi-che-le. Mi-che-le.»

Mentre correva lontano, Michele urlò che andava in stalla. Che avrebbe contato gli agnelli.

«Se sono dodici, non uno di meno, è Charlie Brown, quello in forno» gridò.

Quando Michele saltava un pasto, poi si strafogava di barrette al cacao, anche se sua madre le nascondeva sugli scaffali più alti di Ca’ delle Mosche. I fratelli l’avevano beccato, dopo che si era rifiutato di mangiare Charlie Brown, coi piedi sul ripiano dell’armadio, arrampicato come una scimmia. Pure la faccia, con la bocca cerchiata di marrone, assomigliava a un animale. Avevano dapprima cacciato un urlo.

«Santo cielo che roba è?»

«Fate silenzio, oppure papà taglia il collo prima a noi e poi alla mamma» disse Michele.

Loro madre nascondeva il cioccolato per due motivi. Il meno importante era per non buscarle dal marito per aver speso i soldi, l’altro era proprio per evitare che i suoi figli si ammazzassero tra loro. Sei bambini, però, significavano troppi occhi per riuscire nell’intento, soprattutto se si parlava di cibo.

Così, quando i fratelli si accorsero di che pasta fossero i nuovi baffi di Michele, gli si lanciarono addosso dandogli del ladro.

«Il peggiore ladro del mondo» dissero.

«Tornatevene a mangiare i cani, voi» disse Michele.

I fratelli con tutta la stizza che avevano in corpo lo tirarono nel campo di fronte a casa. Michele, per vendicarsi, prese una zolla grossa come la sua faccia da scimmia e la lanciò in una pozzanghera. Ne fece una barretta di terra e con forza imboccò, uno a uno, tutti e cinque i fratelli.

«Ecco, un po’ di cioccolato anche per voi.»

Anche le facce dei fratelli si erano colorate di marrone e lui pensò che, per la prima volta, fossero tutti sullo stesso piano, con le stesse possibilità.

Michele finì di gusto tutto quel che c’era nel piatto solo il giorno in cui Charlie Brown tornò con una testa di pecora in bocca. Il padre si infuriò perché diceva che nella loro famiglia non ci sarebbe mai stato cibo a sufficienza con un figlio che, a seconda della luna, una sera era capace di avanzare il cibo, e la sera dopo di divorarsi anche quello degli altri.

«A lavorare. A uccidere anche lui, deve andare» diceva alla moglie.

Sulle note di quelle parole a Michele andò di traverso un boccone fermandosi all’altezza del gozzo come un tappo di sughero. La madre lo afferrò per i piedi, lo scosse su e giù facendolo sembrare il manico di una zangola e gli urlò «Tossisci, forza tossisci.»

Il padre diceva che chi aveva i denti doveva usarli, pure quando non c’era il pane da masticare.

I fratelli lo canzonavano, sperando che di quel passo si vomitasse in faccia.

«Stupido che non sei altro. Neanche di mangiare, sei capace.»

Tutti continuarono a ripetere le loro litanie, fino a che alla madre non si strappò la camicia all’altezza del petto e, col crac del cotone, Michele si liberò dal tappo in gola e riprese colore.

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