“Alle quattro del mattino, ovvero quando imparai ad aver paura”, di Maria Pilolli #dopolavoroletterario 57
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“Alle quattro del mattino, ovvero quando imparai ad aver paura”, di Maria Pilolli #dopolavoroletterario 57

Durante il laboratorio “Storie di luoghi straordinari”, ho assegnato un  esercizio ai partecipanti. Dato un incipit, uguale per tutti, raccontate la storia del vostro luogo narrativo. L’incipit uguale per tutti era questo: Una città deserta alle quattro del mattino può raccontare tutto quanto si può imparare su questa terra. Ne sono venuti fuori 11 luoghi, uno diverso dall’altro eppure tutti davvero pieni di “vita narrativa”: chi ha dato vita al se stesso che scrive e chi ha dato vita a personaggi che dentro quei luoghi mi auguro proseguiranno a vivere. Maria Pilolli ha dato vita a una storia compituta, ha piegato il mio input al suo volere di scrittrice. Trovo che sia stata molto brava, questa è la sua storia.

Alle quattro del mattino, ovvero quando imparai ad aver paura.

Di Maria Pilolli

Una città deserta alle quattro del mattino può raccontare tutto quanto si può imparare su questa terra.

Alle quattro in punto non si vedeva più la luna e il lampione giallo al numero 35 di via Spaventa, si stancò di illuminare. Un flash, un tac, un frizzo. Morto.

Alle quattro e un minuto passò un gatto a strisce che pisciò sulla saracinesca del numero 58.

Alle quattro, un minuto e quaranta secondi il gatto si lisciò il pelo fra le bottiglie di Raffo riverse sul selciato fra i tavolini incatenati del bar Milan di Pentassuglia Maurizio e figli, all’angolo di Piazza Garibaldi.

Alle quattro e cinque minuti, Spartaco l’albanese, al volante della sua fiat tipo grigio topo, si addormentò al terzo semaforo rosso di via Nazionale, dall’altro capo della città. Ci rimase, intontito, fino al rosso successivo.

Alle ore quattro e sette minuti, qualcuno mise una bomba nella pescheria dei fratelli Dibarletta. Pino e Ciccio, venti denti in totale e un solo tatuaggio verde sull’avanbraccio. Lo stesso pescespada dell’insegna.

Alle quattro, sette minuti e trenta secondi tremavo nel mio letto rosa puzzando di paura sicura che bosniaci col Kalashnikov avessero fatto irruzione in casa mia.

Alle quattro sette minuti e trentacinque secondi Il signor Lillino chiamò il 113 con voce seria e impostata da ex colonnello in pensione.

Alle quattro e otto minuti i lampeggianti blu passavano già tra le fessure delle mie persiane e si moltiplicavano fra i frammenti dei vetri rotti.

Alle quattro e quattordici minuti e qualche secondo ero in strada, intirizzita, in pigiama, insieme al signor Lillino in vestaglia da camera e sua moglie la polacca, a Spartaco l’albanese in tuta da lavoro, a Pentassuglia Maurizio del bar omonimo, senza i figli, due carabinieri e Marietta del negozio di intimo, con lo scialle azzurro e un gatto a strisce fra le pantofole.

Assenti i fratelli Dibarletta.

La saracinesca era rigonfia come se un gigante le avesse dato un enorme calcio. Il pescespada s’era staccato dall’insegna e dondolava, mezzo annegato, appeso per la coda.

Era buio, intorno tutto dormiva. La strada senza traffico, i parcheggi vuoti su via Margherita. Sentivo i miei passi sul lastricato. Gli insetti danzavano e si schiantavano sui fari. Non era un giugno troppo caldo. e

Alle quattro e venti minuti i carabinieri risalirono a bordo dell’Alfa 33 e ripartirono a lampeggianti spenti.

Alle quattro e venticinque minuti appurato che nessuno aveva visto niente, nessuno aveva sentito niente e praticamente nessuno sapeva niente, il signor Lillino, il colonnello, prese la moglie polacca sotto il braccio e riportò la sua vestaglia al calduccio. Spartaco l’albanese chiuse a chiave la sua fiat Tipo, sbadigliò e se ne andò a letto.

Li seguirono Maurizio senza figli e Marietta di Intimo Marietta, muti e scuri in volto.

Alle quattro, venticinque minuti e trenta secondi me ne tornai nel mio letto rosa, sprangando la porta a quattro mandate, sicura che una guerra ci fosse davvero, infima, zitta e sotterranea.

Alle quattro e cinquantanove minuti il gatto a strisce miagolò un’ultima volta e io mi riaddormentai.

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