“Pitima” di Marzia Elisabetta Polacco – Dopolavoroletterario n. 45
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“Pitima” di Marzia Elisabetta Polacco – Dopolavoroletterario n. 45

Quando prima di cominciare il nostro editing, ho chiesto a Marzia: cos’è che non va nella tua storia?; lei mi ha risposto così:” Mi piace lo stile, ma a volte ho la sensazione di aver banalizzato troppo alcune descrizioni.” Vero era vero. Marfzia ha unan voce, in questo romanzo ma anche nei suoi precedenti, che non può lasciarti indifferente e tantomeno da sola. La voce di Pitima, la bambina protagonista di questo romanzo inedito, ha una voce che mi ha sedotta, infastidita, nutrita e innervosita. In tutti questi mesi, è rimasta con me. Stimo molto il lavoro che l’autrice ha compiuto su stessa, non è possibile che questo romanzo, e questa voce, resti dentro un cassetto. Editori, fatevi avanti!

(L’estratto è l’incipit del romanzo. L’immagine è dell’autrice.)

Pitima

Romanzo di Marzia Polacco

Così mi chiamava mia madre. Sparava la pi come se le sue labbra sputassero la pallina di un flipper. A tutta velocità. Ne sentivo lo schiocco, quando colpiva il puntino in cima alla i e la sua bocca si arricciava in un ghigno. Poi, non appena l’energia che ne aveva sostenuto la traiettoria si affievoliva, la pallina rallentava e atterrava svogliata sul trattino della ti. Rimaneva qualche secondo in bilico, quasi un frammento di indecisione, prima che l’inerzia la spingesse a rimbalzare brevemente sulla curva arrotondata della emme e poi di nuovo giù, a capofitto nella a finale, che si spegneva senza eco nelle mie orecchie annoiate.

Pitima mi chiamava.

Sempre.

La mattina, se indugiavo qualche minuto nel letto prima di andare a scuola. Dal tabaccaio, quando mi perdevo con lo sguardo nei pacchetti di caramelle. La sera, se inventavo qualche scusa per rimanere sveglia a guardare la tivù e infrangere il coprifuoco delle nove. Eppure il nome, quello con cui ero stata registrata all’anagrafe, quel Sancia che i miei compagni di scuola si divertivano a storpiare da più di quattro anni, l’aveva scelto proprio mia madre. Anzi, l’aveva imposto. Mio padre si era sforzato di proporre in sequenza Carla, Maria e Paola, quasi fossero le soluzioni di un cruciverba, lui che ogni giovedì si faceva mettere da parte la Settimana Enigmistica dal giornalaio sotto casa solo per leggere le barzellette. Ma la mamma aveva detto No, non darò mai a mia figlia un nome così dozzinale! Nella vita bisogna distinguersi, ripeteva sempre. Perché siamo nobili, io e lei, discendenti di antichissimo lignaggio. Principi spagnoli, addirittura. Era stato un parente di sesto grado, sicuramente di un ramo cadetto, ad assumersi il compito di far crescere a ritroso l’albero genealogico di famiglia fino al Siglo de Oro, ma l’interesse per l’araldica si era rivelato un caso isolato. A nessuno dei suoi congiunti, naturali o acquisiti che fossero, era mai importato un accidenti di quel dannato albero, nonostante le sue fronde adornassero di sguincio la parete esposta a nord del salotto stile Impero del parente di sesto grado. Tranne mia madre, che con quella nobiltà decaduta si era cucita addosso una tunica di rancore da indossare tutti i giorni. Di altri benefici non vi era traccia e sebbene immaginassi i miei antenati che intrecciavano trame e matrimoni con le casate regnanti di mezzo mondo, noi non ci potevamo permettere nemmeno uno straccio di governante. Probabilmente era proprio questo ciò che la offendeva di più, ritrovarsi un giorno sì e uno no accovacciata in bagno a pulire la tazza del water, quando lo scopino del cesso diventava l’unico scettro di cui potesse dotarsi. Nonostante la diffusa indifferenza per le sorti dell’albero – di quale specie si trattasse, è rimasto ignoto – erano anni che sentivo mia madre vantarsi di quella supposta e supponente nobiltà con la stessa protervia con cui Maria Antonietta avrebbe chiesto un parrucchiere al suo boia. Nessuno si era mai azzardato a chiederle come mai gli eredi di una casata dal sangue tanto blu avessero pensato bene di abbandonare regge e tenute boscose dell’amata nobiltà per attraversare mezza Spagna, Francia e lo stivale intero al solo scopo di mettere radici in uno sperduto paesino della Puglia. A fare cosa poi? Raccogliere pomodori da bagnare sulle friselle? Rinseccolirsi al passaggio a livello di Via Pezze del Sole fino al giorno della pensione? O magari alzarsi alle due di notte come lo zio Pasquale per accendere il forno? Di altri mestieri a Giovinazzo in quegli anni non ne conoscevo, a meno che non decidevi di imbarcarti dieci mesi all’anno su un peschereccio e allora chi s’è visto, s’è visto. Ma so per certo che se anche qualche impavido avesse osato farle quella domanda, la mamma non lo avrebbe degnato di una risposta. Del resto non se ne preoccupava: lei era la pronipote dei principi di Cabrera e vattelappesca, il resto solo invidia e pettegolezzi.

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