“Allori”, racconto pubblicato su Cadillac N. 10
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“Allori”, racconto pubblicato su Cadillac N. 10

ALLORI

Da un po’ di anni a questa parte, in estate, c’è il sole a scoppiare o una pioggia devastante. Questa mattina, il sole. Esplode. Sulla pelle. In ogni lembo. Mi segue sulle braccia sulle cosce in mezzo alle gambe tra le dita dei piedi ispessiti dal sudore.

Non torno su questa spiaggia da quando ci siamo stati insieme. Non è proprio una spiaggia. È una caletta. Ed è meglio essere precisi.

Tecnicamente si parcheggia l’auto su una roccia a strapiombo, stando attenti a non inciampare in cocci di birra, siringhe e detriti animali; poi si scende a mare. La caratteristica della caletta è l’acqua. Gelata. Al primo contatto il piede scava dentro un iceberg. Uno stecco gelato, la pelle frizza come quando si morde un ghiacciolo.

Quando arrivo in spiaggia, non penso a noi, che ci siamo venuti insieme. È solo la soluzione più comoda. Parcheggio che non irrita. Vicinanza discreta dal centro abitato. Pochi bambini. Non che abbia niente contro. Ma sono scomodi, come vicini di ombrellone. Una scelta comoda, insomma. Deve essere questo la solitudine, la soluzione più comoda.

Quando entro in acqua mi torna in mente ogni dettaglio, nel rinnovato bisogno di dimenticarti.

Quel giorno avevi detto a tua moglie che saresti andato, con il tuo amico Beppe, a camminare dall’altra parte della Puglia, quella dove non c’è il mare e non ci sono nemmeno i soldi.  Una giornata di trekking. Con questo caldo, avrà commentato lei. Senza dirtelo. Il dubbio che le stordiva la testa.

Io infradito, tu scarpe da trekking. “La discesa è comoda”, è stata la prima cosa che mi hai detto. Era vero.  Bastava.

Quando siamo arrivati giù, a mare, invece di sudare sembrava che tu sanguinassi dentro quella tuta fuori luogo. Faceva molto caldo quel giorno  come fa caldo oggi. C’era molta gente, troppa. Ci stringemmo un asciugamano in due tra un mezzo scoglio e una borsa termica delle dimensioni di un comodino brutto. “Adoro questo posto”, mi avevi detto. Io invece non lo conoscevo. Al mare vado sempre nello stesso luogo, lontano da casa, da sola, come al cinema. Raccolgo i pensieri e le idee. Funziona da studio di registrazione, il mare. Soprattutto ora che ci vivo lontana.

Tornando sul bagnasciuga, la vedo. Discende la cala. Dietro di lei ci sono i tre nanetti, in ordine crescente di altezza. Mi copro gli occhi.  Lei indica al bagnino tre lettini e un ombrellone. Sono quelli a due passi dal mio. Affondo la faccia dentro il lettino. Mi giro di spalle al sole, e conficco il naso nelle trame ispide del nylon. Forte forte, sperando che lei non mi veda. Il nylon sa di petrolio. Di vomito. L’arancio della tela mi appanna la vista.

Dopo il mare siamo andati al concerto di David Garrett. C’era tanta di quella gente che tu non potevi crederci. Io mi sono fatta un po’ boriosa. Sapevo che ti avrei stupito. Non lo conoscevi, David Garrett. Quando è salito sul palco hai detto: “Ma questo è Kurt Cobain” e io ti ho odiato e poi Garrett ha aperto il concerto sviolinando “Smells Like Teen Spirit” e io mi sono bagnata nelle mutande immaginando che quando tu nomini dio: dio si manifesta. Il concerto ti è piaciuto. Mi hai ringraziato per tutta la sera, quando siamo scappati in un albergo a ore. Stupirti era stata una cosa semplice. Insegno al Conservatorio da troppi anni. Sono la più anziana tra i moderni, come  chiamano i musicisti falliti come me. Se non sapessi nemmeno portare un uomo a un concerto sarei fottuta. Lo sono già abbastanza che chi insegna una disciplina senza praticarla è un vero fallito, che vergogna. Anche se questa cosa è vera fino a un certo punto: un musicista che non sa suonare è sicuramente più fallito di uno che ci ha rinunciato.

Passata un’ora e mezza dall’arrivo della tua famiglia. Il terrore che il segno del lettino si incolli al naso, per sempre. Troppo a lungo in questa posizione. Mi giro di colpo verso il sole e vedo il tuo gemello nano giocare con il secchiello e le formine a stella a meno di venti passi dal mio lettino. Deve essere lui Gianvito, l’ultimo nato, quello che ti stava un po’ antipatico, che era dispettoso. Scherzavi: tu i tuoi figli li adoravi. Posso giurarlo anche sotto tortura. Adoravi Manuela che era stata la prima ed era rimasta l’unica femmina, l’avevo vista una volta in foto ma adesso, adesso se la vedessi adesso ti verrebbe la pelle d’oca come sta succedendo a me. I riccioli si sono definiti. Non sono più un cespuglio sulla testa. Le efelidi si sono ridotte, forse con lo sviluppo.  Ha un sorriso che mi ricorda quello che mi facesti quando ti dissi che forse era meglio lasciarsi subito per non aggravare la situazione. Alla parola situazione, sorridesti. Si sentiva il mio accento del sud carnoso che mi illudevo, all’epoca, di nascondere per sentirmi più cittadina. Hai sorriso, chiudendo gli occhi. Come a provare vergogna. La stessa espressione che fa adesso Manuela, tua figlia.

Simone invece è quello di mezzo, quello che ti somiglia meno. Somiglia a tua moglie. Che in qualche modo adesso somiglia a te come se tu le avessi lasciato in eredità le espressioni facciali. In particolare quella in cui ti spremi le pupille quando sei stanco e le dita che spingono sull’occhio creano un suono simile alla corazza di una coccinella quando la schiacci. Mi fa molto ridere questa cosa. Ossevare le tue espressioni su di lei.

Comunque Gianvito, avevi ragione, è antipatico. Rastrella nella sabbia proprio accanto al mio piede. Quando incrocio lo sguardo di Elisa, tua moglie, che si scusa con me per l’invadente presenza del bimbo, quando pronuncia Mi scusi è come se un serpente mi stesse strisciando sulla schiena, in quel preciso momento realizzo che non serve nascondere la faccia dentro il lettino perchè lei non la conosce, la mia faccia. Chiudo subito l’argomento dicendole di non preoccuparsi, che tuo figlio Gianvito, il bimbo, non mi procura fastidio, tanto ora vado a fare un altro bagno.

Quando mi hai detto che l’avresti lasciata, sono stata la donna più felice sulla faccia della terra. Proprio, la più felice. Ma quando ho ripensato alla situazione ecco lì sono diventata la persona più stupida della faccia della terra, e ti ho detto: lasciami stare. Tu insistevi, ma io: lasciami stare. Anche dopo che facevamo l’amore e mi sarei estratta un rene pur di comprare ai tuoi figli un padre nuovo e vivere per sempre solo con te: lasciami stare.

Allora ho accettato di trasferirmi al conservatorio di Vienna. Un bel posto, ti piacerebbe il quartiere che lo circonda. Ci sono delle case molto scure, affumicate, con i tetti che guizzano spioventi verso il cielo. Fa un effetto piacevole vedere le porte di legno colorate, in mezzo a tanta austerità. Azzurro, fucsia, giallo. La prima volta che ho visitato il quartiere, un mese dopo il trasferimento, in un giorno di pioggia schizofrenica, ho visto questa alternanza di possibilità, il grigio e i colori, e mi sono sentita serena. Il mio petto ha fatto un sospiro. Un bel sospiro. Non quel sospiro che mi ha fatto dondolare quando mi hai chiamato per dirmi: “Vengo a Vienna”. Oh, no. Quella volta ho sospirato in un modo raro. Come se le arterie scavassero nella sabbia senza trovare mai il fondo. Mi sarei venduta l’altro rene per comprarmi un sistema di teletrasporto e portarti da me e darti un bacio soffiato sulle labbra. Invece, la verità: non voglio stare con un uomo come te. In quel momento credo di aver smesso di amarti. Alla tempesta basta un microsecondo per smettere.

Secondo bagno della giornata. Torno dal mare, l’acqua ghiacciata mi fa i lividi sulle cosce. Tua moglie mi squadra opaca, è fiera di aver convinto Gianvito a togliersi di torno, a non darmi più fastidio. Lo dice proprio, indicando tuo figlio che adesso spara acqua dal bocchettone di una pistola gialla puntando il cielo. “Ora dovrebbe stare più tranquilla”, mi rassicura. “Ne sono certa”, rispondo. Faccio per stendermi ma lei è ancora in piedi, a pochi passi da me. Mi sento in imbarazzo a stendermi con questa che mi punta con gli occhi del parlare. Ci fissiamo. Manuela è in acqua; Simone dorme sotto l’ombrellone. Tua moglie mi chiede se conosco un buon ristorante da queste parti: “Non sono mai stata qui, in questa caletta”. Mi implora con lo sguardo di chiederle cosa le è successo ma io impietosa fingo ignoranza: “Il posto più vicino è “Il galeone”, ma dipende da quello che cercate”. E mi pento. Ma è tardi. “Festeggiamo il compleanno di mio marito, oggi avrebbe compiuto 46 anni. Ma è morto, dieci mesi fa”.

 

Quando sei morto mi ha chiamato Beppe. Mi ha detto: “So che non puoi venire al funerale ma te lo volevo comunque dire”. Ho pensato che per lui il terrore che io venissi al funerale fosse più grande del dolore per la tua  scomparsa. Ho ringraziato Beppe, e poi ho chiuso subito la conversazione. Non mi andava di parlare. Di sapere cosa fosse successo. Sono uscita di casa, sono andata nel centro di Vienna, e mi sono fatta un giro sulla ruota panoramica. Da lassù ho visto tutta la città e sono riuscita a vedere anche quello che avresti visto tu se fossi venuto a vivere con me, qui a Vienna. Mi è piaciuto.

I tuoi figli sono belli ma sono tanti, in effetti. Li osservo con la coda dell’occhio dal mio lettino, oltrepassando con lo sguardo il libro che sto leggendo. Tua moglie non ha finito con me. Lo percepisco da come resta tesa. Allora mi alzo, poso il libro e mi avvicino. Le chiedo se ha prenotato il ristorante e lei mi risponde che ha cambiato idea. Che tornano a casa, tutti e quattro. Poi succede che mi fa segno di avvicinarmi al suo orecchio, sento il tuo odore e le viscere fanno un salto fino in gola.

“Lei non ha idea di che vergogna provo”, mi dice che ha fatto una cosa e che vuole sapere da me che ne penso, se è una cosa orribile. La lascio parlare. “Dovrei vergognarmi per quello che ho fatto a mio marito?” Non so cosa dirle. La fisso ma lei non si ipnotizza, peccato!, e prosegue: “Mi deve dire perché mi hanno condannata. Tutti. Lei lo sa?” No, non lo sapevo e gliel’ho detto, senza indugio: “Non lo so”.

Il vento porta dal mare odore di allori. L’alloro che usavamo in cucina quando venivi da me e nella borsa avevi più dischi che calzini. Me li regalavi, dicendo che mi sarebbero piaciuti. Li avevo già tutti. Ma metterli su con te, avevano un suono nuovo. Un suono di allori. L’alloro che mio padre bolliva nell’acqua insieme ad un limone quando non stavo bene. Non mi chiedeva cosa come e nemmeno perché. Dicevo che stavo male e lui rispondeva: “Vado a prepararti l’alloro”, e io capivo che nel giro di poco più di dieci minuti avrei bevuto gli allori. Li chiamavo allori perché dentro il bollitore c’era più di una foglia e invece il limone era sempre uno. Era singolo, gli allori no. Mio padre non mi chiedeva cosa avessi e io non gli chiedevo a cosa servisse tutta quella brodaglia da ingerire. Che cosa guarisse. Quale malattia. Non lo sapevo. E c’era un bisogno di tacerla. Io dicevo: “Male!”, e lui: “Alloro!”. Al massimo lo correggevo: “Allori”. Questa storia degli allori o dell’alloro o del male è andata avanti per tanti anni. continuerebbe se io dicessi ancora a qualcuno, a mio padre, che ho male, alla pancia, alla testa, a te.

A tua moglie avrei voluto offrire una tazza di allori come quella della mia adolescenza. Le avrei detto: “Bevi gli allori, fanno bene”. Lei non mi avrebbe chiesto il perché e nemmeno a cosa servono gli allori.  Invece, torno al mio posto. Mi distendo sul lettino. Sto zitta.

Sono passate le sette di sera, c’è ancora luce ma senza sole. L’aria comincia a raffreddare. Manca poco alla sera. Le luci del cielo si sono opacizzate nel tramonto. La tua  famiglia si prepara a lasciare la caletta. Manuela pulisce i piedini di Gianvito che puntualmente li ficca di nuovo nella sabbia, non appena la sorella si distrae. Simone ha la faccia incollata a un fumetto con la copertina rossa. Tua moglie ripiega gli asciugamani. Ogni tanto mi lancia uno sguardo. Rivestita e pronta per andare via, mi avvicino. Le sussurro all’orecchio: “Sì: fa abbastanza schifo quello che hai fatto a tuo marito. Ma non devi vergognarti. Molte persone sarebbero capaci di fare ben di peggio. Ma non hanno coraggio. Allora condannano te. Anche se farebbero ben di peggio. Se avessero il tuo coraggio.”

Mi allontano dalla caletta prima di tutti. Tengo il libro in mano. Passo davanti ai tuoi figli. Mi allaccio i sandali. Risalgo lo scoglio. Sento delle risate alle mie spalle.

(Precedentemente pubblicato qui)

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